Un articolo di Salvo Palazzolo su La Repubblica riferisce di una sentenza destinata a imprimere un cambio di paradigma. Il Tribunale per i minorenni di Palermo ha sancito che l’appartenenza a Cosa Nostra configura una inidoneità intrinseca all’esercizio della genitorialità. Non una condizione compromessa: una incompatibilità ontologica.
I mafiosi non possono essere buoni padri e vanno allontanati dai figli. La decisione, sostenuta dalla procura per i minorenni, segna una svolta antropologica prima ancora che giudiziaria.
Ma se la giustizia separa con rigore la paternità biologica dall’abuso criminale, chi separa la responsabilità pubblica dall’abuso istituzionale?
Chi giudica l’indegnità di chi, pur non essendo scritti nei libri mastri, esercita il potere come atto proprietario?
Chi revoca la funzione civile a chi governa con arbitrio, secondo la logica delle relazioni e non della legge?
La mafia istituzionale, ovvero quella degli incensurati, non si sa fino a quando, non ostenta simboli, non adotta linguaggi arcaici.
Non si annuncia. Si insinua.
Non impone il silenzio con la forza, ma con l’abitudine.
Opera per stratificazione. Agisce nella consuetudine.
Si struttura nei vuoti normativi, si mimetizza negli organigrammi, si legittima con il formalismo.
È un potere opaco, che non infrange la norma, ma la svuota.
Non agisce contro il diritto: lo piega a funzione strumentale.
Esercita la discrezionalità come rendita, la burocrazia come barriera, il procedimento come ricatto.
Non esistono più regole, ma eccezioni.
Non esistono più diritti, ma privilegi mascherati da concessioni.
Non esiste più imparzialità, ma appartenenza mascherata da competenza.
È una giustizia modulare: severa verso chi disturba, clemente verso chi coopera, invisibile verso chi comanda.
Tutto diventa (dis)educativo. Ogni omissione è una lezione. Ogni impunità, un precedente.
Questo sistema non governa: addestra.
Forma cittadini rassegnati, adattati, disillusi.
Insegna che la trasparenza è retorica, che il merito è illusione, che la legge è negoziabile.
È criminalità raffinata, che non ha bisogno di intimidire.
Amministra, nomina, seleziona, premia.
Distribuisce rendite attraverso incarichi ritagliati su misura.
Crea fedeltà.
Coltiva sudditanza.
E allora, se un padre mafioso viene dichiarato indegno per incapacità educativa, chi misura l’indegnità di chi diseduca quotidianamente nell’esercizio della funzione pubblica?
Quanti amministratori, quanti funzionari, quanti decisori pubblici dovrebbero essere dichiarati decaduti non da un codice, ma da una coscienza collettiva vigile e intransigente?
L’autorità che abdica alla giustizia non è neutra. È attivamente nociva.
Perché legittima l’inequità, riproduce l’arbitrio, istituzionalizza l’ingiustizia.
Ogni atto di prevaricazione amministrativa è un crimine pedagogico.
Perché insegna che il potere è affrancato dalla responsabilità.
Che l’autorità può corrompersi senza risposta.
Che la legge può piegarsi senza rumore.
Rigenerare la società richiede una svolta culturale.
Non bastano le denunce dell’illegalità conclamata.
Occorre smascherare quella normalizzata.
Occorre destrutturare l’architettura relazionale che trasforma le istituzioni in reti di favore e fedeltà incrociata.
Serve coraggio intellettuale. E responsabilità civile.
Bisogna tornare a distinguere. A chiamare le cose con il loro nome.
A rifiutare l’equivalenza tra posizione e legittimità, tra funzione e autorevolezza.
A rimettere al centro la questione etica come criterio dirimente dell’agire pubblico.
La domanda resta aperta.
Se il giudice può revocare la potestà a chi non sa educare nella legalità, chi revoca il potere a chi non sa governare con onestà?
Chi giudica i giudici dell’indegnità, quando è lo stesso sistema a produrre i propri impuniti?
Chi spezza il ciclo dell’autotutela istituzionale, fondato sulla selettività morale, sull’ambiguità normativa, sull’impunità programmata?
Chi dovrebbe tracciare confini chiari per coloro che operano secondo il principio che le leggi sono da rispettare quando valgono per gli altri, da interpretare quando riguardano gli amici, da applicare rigorosamente quando colpiscono i nemici?
La risposta non è tecnica. È politica, culturale, collettiva.
Sta nella nostra capacità di non accettare più l’inaccettabile, nella volontà di rifiutare la complicità del silenzio, nell’esigenza irriducibile di giustizia come fondamento, non come concessione.
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