Il ddl presentato all’Ars reintroduce il voto diretto, corsa per fermare le elezioni di secondo grado, anche se già nel 2018 il tentativo fu bocciato dalla Consulta perché incostituzionale finché vige la Delrio
Il centrodestra, già da mesi, sapeva che le elezioni di secondo livello non si sarebbero celebrate.
Tra i temi che contribuivano a scoraggiare i partiti, l’incandidabilità di molti dei loro sindaci, dato il vincolo imposto dalla norma che prevede un’esperienza di almeno 18 mesi alla guida di un Comune prima di poter ambire alla massima poltrona di un Libero consorzio.
Quella norma avrebbe ristretto eccessivamente la platea dei candidabili, insieme a una serie di aspetti legati al peso che il voto ponderato attribuisce ai consiglieri dei Comuni maggiori rispetto agli altri.
Insomma, le elezioni di secondo livello non si dovevano fare. Nonostante la viabilità all’osso nei 15mila chilometri di strade provinciali e l’allarme dei sindaci sull’edilizia scolastica degli istituti superiori che ricadono tra le competenze delle ex Province, la politica punta adesso al ritorno al voto diretto per eleggere presidenti e consiglieri.
Col rischio, altissimo, di una nuova impugnativa da Roma.
Non sarebbe neanche notizia.
Ci ha già provato il governo Musumeci, nel 2018: il ritorno all’elezione diretta è stato annullato poi da una pronuncia della Corte costituzionale.
Ci ha riprovato Schifani, lo scorso febbraio, ma in quel caso la legge è stata impallinata prima di essere messa al voto.
Da quasi dieci anni si cerca di riportare le Province al voto e poi si fa un passo indietro, lasciando gli enti in un immobilismo perenne.
Adesso il nuovo tentativo, in assenza di modifiche normative nazionali, lascia dubbi sul fatto che la norma possa portare all’insediamento dei seggi elettorali.
Perché, allora, insistere ? Verosimilmente per prendere tempo.
Le poltrone in palio sono 338 tra consigli provinciali e giunte, per le liste i partiti dovrebbero mobilitare migliaia di aspiranti consiglieri, soprattutto tra i loro amministratori locali ai nastri di partenza.
C’è poi il tema del compenso, non previsto dalla norma sulle elezioni di secondo livello, e reintrodotto invece dal disegno di legge che porta la firma dei capigruppo di maggioranza.
Una mobilitazione di energie e aspettative che farebbe da volano ai partiti in vista della difficile composizione delle liste per le Regionali.
E non è un caso che i deputati all’Ars si sentano minacciati da questa accelerazione mentre le segreterie di partito siano già pronte a fare scouting tra le nuove leve.
In questo clima, l’iter della legge è tutt’altro che scontato.
Con una deadline che diventa corsa contro il tempo.
Perché la nuova legge deve essere approvata entro il 10 novembre, altrimenti il rinvio delle elezioni di secondo livello non è più possibile.
E allora ecco l’accelerazione: norma incardinata già ieri in commissione Affari istituzionali, tempo per gli emendamenti fino a lunedì prossimo, esame da martedì.
Con l’intenzione di trasmettere il testo all’Aula il 4 novembre, per un esame lampo.
Le opposizioni sono già sul piede di guerra. Antonello Cracolici parla di “grave violazione statutaria”, Michele Catanzaro grida al “bluff”, per Fabio Venezia “è un governo di irresponsabili”.
La Cinquestelle Martina Ardizzone, che a breve sarà sostituita da Lidia Adorno, candidata nella stessa lista e che ieri ha vinto il ricorso, si dice certa che “il centrodestra si prepari a una nuova batosta”.
In questo clima, è difficile immaginare che la norma possa vedere la luce.
“La exit strategy, sibilano dalle retrovie, è una norma snella sul rinvio delle elezioni di secondo livello. È già pronta in un cassetto”.
Anche perché il tempo, a questo punto, è veramente tiranno: a partire dal 5 novembre l’Ars sarà chiamata ad esaminare la manovrina di fine anno, mentre già il 7 novembre la giunta trasmetterà la Finanziaria all’Assemblea.
Da quel momento, con la sessione di bilancio aperta, nessun altro disegno di legge potrà essere discusso in attesa della fumata bianca al bilancio.