“Nessuna scandalosa decisione anti-israeliana ci impedirà, e mi impedirà, di continuare a difendere il nostro Paese”, ha detto il premier
Una cosa sola è certa: come ha sottolineato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, Benjamin Netanyahu è da ieri “ufficialmente un ricercato”.
Ma come il primo ministro più longevo di Israele, l’uomo che è riuscito nell’impresa di restare alla guida del Paese dopo la strage peggiore della Storia dello Stato ebraico, intenda ora giocare la sua partita, al momento non è chiaro.
“Nessuna scandalosa decisione anti-israeliana ci impedirà, e mi impedirà, di continuare a difendere il nostro Paese”, ha detto ieri sera il premier in un messaggio alla nazione.
Prima, il suo ufficio aveva parlato di «moderno processo Dreyfus» denunciandone la vena “antisemita”.
Concetti simili sono arrivati dal presidente della Repubblica, Isaac Herzog, ma anche dal capo dell’opposizione Yair Golan. Opposti, naturalmente, i toni dall’altra parte, con l’Autorità nazionale palestinese del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che parla di “un segno di speranza e di fiducia nel diritto internazionale e nelle sue istituzioni”, mentre Hamas in una nota invita il tribunale ad “allargare la ricerca di responsabilità a tutti i leader criminali dell’occupazione”.
La decisione dell’Aia arriva in un momento delicatissimo per Netanyahu: due dei suoi più stretti collaboratori, da giorni agli arresti domiciliari, sono stati formalmente accusati di aver compiuto “azioni dannose per lo Stato”, un capo d’imputazione collegato allo spionaggio che, se confermato, potrebbe portarli in prigione per anni.
Seguendo gli inquirenti, avrebbero manipolato informazioni riservate e le avrebbero passate alla stampa nel tentativo di rafforzare la visione del premier, contrario al cessate il fuoco con Hamas: fatto che ha provocato rabbia profonda nelle famiglie dei 97 ostaggi ancora a Gaza e in quella parte dell’opinione pubblica che le sostiene.
Non basta: il 2 dicembre lo stesso Netanyahu sarà chiamato a deporre davanti ai giudici nei due casi per corruzione per i quali è indagato da anni.
Per mesi il primo ministro è riuscito a posticipare l’appuntamento, giustificando l’assenza con la necessità di guidare il Paese durante la guerra.
Ma ora la vicenda che da anni pesa sulla sua testa è tornata a bussare alla porta.
Tutto questo porta chi si oppone al premier a considerare la richiesta dell’Aia come l’ultima, riprovevole, puntata di una leadership che deve uscire di scena il prima possibile: “Possiamo descriverlo come un oltraggio, un episodio di antisemitismo o una mossa non corretta: ma al momento è una realtà che Israele non può più ignorare”, scriveva ieri il commentatore diplomatico di Haaretz Amir Tibon, unendo la sua voce a quella di chi chiede un cambio di leadership.
Ma è difficile che siano questo tipo di posizioni a prevalere: “Chi sostiene Netanyahu non cambierà idea a causa del mandato di arresto. Il premier lo userà per presentarsi ancora di più come l’unico uomo forte abbastanza per difendere Israele davanti al mondo. E che per questo paga un prezzo altissimo”, spiega al telefono da Gerusalemme Yehuda Mirsky, professore della Brandeis University di Boston.
Una tesi, questa di Netanyahu, che punta a screditare chi lo critica dal centro o da sinistra – Benny Gantz e Gadi Eisenkhot che guidano il partito di Unità nazionale, ma anche Yair Golan alla testa del Labour e Meretz – ma lascia il fianco scoperto all’unico politico che da mesi sembra in grado di mettere in discussione la sua leadership, Naftali Bennett.
Ex primo ministro, uomo di destra come lui e come lui vicino al movimento dei coloni, su posizioni simili sulla guerra ma meno compromesso di lui, Bennett è da mesi testa a testa con Netanyahu nei sondaggi, pur essendo ufficialmente fuori dalla politica attiva.
Gli ultimi rilevamenti dicono che se decidesse di tornare in scena e candidarsi, il suo partito prenderebbe 23 seggi contro i 24 del Likud di Netanyahu. Risultato non indifferente per un movimento che al momento non solo non ha un nome e un simbolo, ma neanche esiste: ma che da ieri, grazie alla decisione della Corte dell’Aia, ha una freccia in più al suo arco.