C’è un’abitudine che spesso caratterizza buona parte della politica italiana e non solo. Quella di “mettere il cappello su ogni cosa”.
L’espressione descrive perfettamente l’atto di intestarsi un risultato, un successo, o persino un’iniziativa, spesso tacendo sul contributo altrui o, peggio, appropriandosi di ciò che è frutto di sforzi collettivi e magari preesistenti.
È la “sindrome del cappello”. Non appena si profila un minimo di risultato positivo si assiste a una corsa a chi riesce a reclamarne la paternità per primo. Una mossa strategica, finalizzata a costruire o rafforzare il proprio consenso e la propria immagine.
Ma quando questo gesto diventa la norma, crea la reazione, spesso indignata, di tanti cittadini, ovviamente non tutti.
L’esperienza ci insegna però che, troppo spesso, questi “cappelli” sono fatti di carta, fragili e destinati a volar via al primo alito di vento.
E la città di Caltanissetta non è immune da questo fenomeno, anzi.
Abbiamo assistito nel tempo a una vera e propria sfilata di rivendicazioni: dall’annosa questione dell’antenna e a quella ben più complessa e importante del Policlinico.
Tutte grandi opere annunciate, promosse e rivendicate con enfasi da una parte politica, salvo poi cadere nell’oblio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, i “cappelli” sventolano, ma i fatti concreti tardano ad arrivare. L’annuncio trionfale del risultato portato a casa o sulla disponibilità di fondi si scontra con la desolante realtà del nulla.
È giunto il momento di invertire la rotta, a Caltanissetta come altrove. La comunità non ha bisogno di vedere politici che gareggiano a chi sfoggia il cappello più elegante, ma di chi risolve i problemi quotidiani e porta a compimento le opere promesse, a prescindere da chi le ha iniziate.
La vera politica non è quella del “chi l’ha fatto”, ma quella del “finalmente è stato fatto”.
Basta con la politica degli annunci fini a sé stessi. La gente chiede di vedere i fatti: strade e vie percorribili, servizi sanitari efficienti, opportunità di lavoro concrete e un futuro meno incerto.
Forse, la prossima volta che si sentirà un politico reclamare il merito di un’opera o di un progetto, la risposta collettiva dovrebbe essere una sola: “Grazie per il cappello, ma adesso facci vedere il risultato.”
Solo quando i progetti rivendicati smetteranno di essere promesse eterne e diventeranno realtà tangibili, la politica riacquisterà la credibilità che merita.
Continuiamo però a leggere, sentire o vedere spesso annunci della politica dove si danno notizie su cose fatte, ma che o non sono proprio tutta farina del proprio sacco o sono cose ancora da realizzare.
Ma la motivazione è semplice.
L’espressione “abbiamo/ho fatto” è ormai un vero e proprio pilastro della comunicazione politica, un’affermazione forte che cerca di dimostrare la concretezza e l’efficacia di un’amministrazione.
L’“abbiamo/ho” indica un senso di appartenenza, di un’azione diretta e meritoria, mentre “fatto” suggerisce un risultato tangibile e visibile.
Tuttavia, nell’arena politica, queste due parole vengono spesso usate in modo distorto o “abusivo”, alimentando un crescente scetticismo tra i cittadini nel credere a quello che viene comunicato.
Il “noi/io” del politico non sempre si riferisce a un’idea e a una realizzazione propria, ma a volte si tratta di progetti già avviati da amministrazioni precedenti.
Allo stesso modo, il “fatto” può passare dal significato di “realizzato” a quello, molto più generale, di “ideato”, “pensato” o “annunciato”, ma ancora lontano dal diventare realtà.
Prendiamo ad esempio il rifacimento del manto stradale.
L’attuale giunta lo ha messo in pratica, ma il progetto, la pianificazione e i fondi sono eredità della passata amministrazione.
Sia ben chiaro è sicuramente un’azione meritoria, ma la realizzazione si è trasformata in un’appropriazione di totale merito.
Ancora più enigmatico è il caso della promessa, di cui poco o nulla si sa, dell’accordo per la riapertura di una piscina.
L’annuncio della prossima riapertura viene dato come un “fatto”, ma l’attesa rivela una realtà ben diversa, lasciando qualche perplessità e la riprove sta nel non essere ancora stato esplicitato e portato in consiglio per la sua approvazione e, cosa più grave, non avendo soddisfatto la richiesta di accesso agli atti fatta da un consigliere.
La paura dei cittadini è che queste promesse svaniscano, proprio come nel caso dei fondi, i 4.2 milioni di euro destinati alla rete idrica cittadina.
Questo modo di comunicare non è altro che un “gettare fumo negli occhi”, un tentativo di autocelebrazione che nasconde la vera storia dei fatti o la distanza tra l’intenzione e la realizzazione.
Oggi, i cittadini non si limitano più a osservare passivamente, sono più attenti e vigili, hanno strumenti di verifica e un sano cinismo che li rende indifferenti alle facili “autocelebrazioni” o “cappelli”.
La politica deve rendersi conto che i tempi sono cambiati e che è arrivato il momento di rivedere radicalmente il proprio linguaggio.
La chiarezza e la trasparenza riguardo ai meriti, sia propri che altrui, ai tempi di realizzazione e ai veri stati di avanzamento dovrebbero prendere il posto della retorica dell’onnipotenza.
Riconoscere l’eredità di chi li ha preceduti o il dire realmente le cose come stanno, non è un segno di debolezza, ma di maturità istituzionale.
Al momento, sembra che l’obiettivo principale non sia il benessere collettivo, ma piuttosto il dimostrare incessantemente di “stare lavorando” per giustificare la propria posizione e, in ultima analisi, per “richiedere sempre più poltrone” o “rielezioni”, a beneficio esclusivo di se stessi o del partito di riferimento.
La vera vittoria per la politica non è l’applauso ottenuto con un vanto, spesso, fuori luogo, ma il silenzioso e l’indiscutibile riconoscimento dei cittadini per un’opera realmente portata a termine.
Fino a quel momento, ogni “è merito mio” o “abbiamo fatto” è solo una sollecitazione a verificare se dietro le parole ci siano i fatti e, nello stesso tempo, a non abbassare la guardia. Ad Maiora
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