C’è una nuvola nera che da tempo incombe sulla nostra città, un declino lento e inesorabile che porta con sé l’odore delle promesse non mantenute e il rumore assordante dei silenzi dei cittadini.
Non stiamo parlando di fatalità o sfortuna, ma di una “malattia” cronica alimentata da chi meno te lo aspetti, noi stessi, i cittadini.
Quante volte ci siamo trovati di fronte all’evidenza di una clamorosa “minchiata” pronunciata da chi detiene il potere? Tante, troppe.
Quanti discorsi vuoti, quante soluzioni annunciate con grande pompa e poi svanite nel nulla? Tante, troppe.
E quante volte abbiamo fatto finta di crederci? Tante, troppe.
La giustificazione è sempre la stessa, quella motivazione nascosta il “pari mali”, meglio cioè non esporsi per non rovinare certi rapporti.
È più facile ingoiare il rospo che affrontare il difficile compito di dire cosa si pensa per ristabilire la verità.
Questo atteggiamento, questo timore reverenziale o, peggio, questa apatia, non è affatto innocuo.
È il detonatore che accende la spirale discendente della comunità in cui viviamo.
Se i cittadini di una comunità, così come chi ha il compito di dire le cose come stanno, non cambiano il loro atteggiamento e continuano a evitare un confronto schietto, diretto e sincero, preferendo il parlare di amenità, la città non farà altro che continuare “serenamente” a scivolare verso quel baratro che ha già intrapreso da anni.
La parte più dolorosa e ipocrita di questa situazione è che ci si rifugia poi nei salotti privati, nelle pizzerie o ristoranti, tra amici fidati o in chat anonime, dove l’indignazione può finalmente trovare libero sfogo.
In quei posti si commenta con passione e veemenza l’incompetenza di Tizio, la menzogna di Caio, o l’assurdità di qualche iniziativa o l’unitilità di un progetto, creato solo per accontentare qualcuno.
Si discute e ci si lamenta, ma ovviamente lontano dagli occhi e dalle orecchie di chi dovrebbe invece ascoltare queste parole.
Ma a cosa serve tutto questo sfogo?…. Diciamocelo chiaramente, a nulla.
È un’autogiustificazione sterile, un modo per sentirsi meglio senza però inimicarsi o sporcarsi le mani.
Il vero confronto, quello che potrebbe davvero portare a un cambiamento, avviene solo quando si ha il coraggio di alzare la voce come si deve, di mettere in discussione fatti e personaggi, di pretendere e di chiamare le cose con il loro nome, anche a costo di sembrare “sgradevoli”.
Che sia attraverso la stampa, sui social o direttamente, sarebbe un segnale chiaro per dire “non siamo fessi, adesso stai esagerando”.
L’amara verità è che il momento della consapevolezza arriverà quando saremo già troppo in basso per risalire, quando ogni reazione sarà tardiva, quando il degrado sarà irreversibile, l’esodo giovanile inarrestabile, e l’ultima speranza si sarà spenta nell’indifferenza generale.
Solo allora, forse, ci guarderemo indietro con l’amara consapevolezza di aver avuto tra le mani la possibilità di cambiare rotta e di averla lasciata andare per paura del “pari mali” o di un “tornaconto” sperato e magari mai ottenuto.
Non si tratta solo di criticare ad ogni costo, ma di una questione morale, etica e di responsabilità civica.
Avere la possibilità di esprimersi e di scegliere, piuttosto che rimanere in silenzio, o sperare solo che lo facciano altri, è un atto di resa, un tradimento verso la comunità di cui facciamo parte, verso noi stessi e soprattutto nei confronti delle future generazioni.
Come ha detto con profonda amarezza Martin Luther King: “Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi ma l’indifferenza dei buoni”.
Chi non si oppone, chi preferisce il silenzio per vivere in pace, chi si limita a commentare in privato, diventa un complice silenzioso e, in ultima analisi, il vero responsabile del lento affondamento della propria città.
E per questo, non ci sarà perdono. Ad Maiora.
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