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“Ubi veritas, ibi ius” – Dove c’è verità, lì c’è diritto. Di Marinella Andaloro

Last updated: 15/07/2025 15:25
By Redazione 307 Views 8 Min Read
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Il cittadino che si affida alla tutela legale non acquista un mero servizio burocratico. Investe un custode dello Stato di diritto, un gladiatore della verità.

Il diritto inviolabile alla difesa si svuota di significato quando l’avvocato si trasforma in complice di un sistema che privilegia le convenienze processuali sulla verità sostanziale.

Quando la cosiddetta “verità processuale” si erge a menzogna istituzionalizzata, quale costruzione artificiosa che tradisce la realtà dei fatti, l’avvocato degno di questo nome ha il dovere sacro di demolirla.

Senza pietà.Lo Stato di diritto esige giustizia autentica, non simulacri processuali. Il dovere dell’avvocato deve trascendere ogni logica di conformità alle risultanze documentali quando queste dipingono una realtà distorta.

Il cliente non cerca un mero esecutore di rituali forensi, ma un professionista capace di smantellare, con rigore scientifico e determinazione ferrea, ogni costruzione fallace che si frapponga tra i fatti reali e la loro corretta rappresentazione giuridica.

L’imperativo è cristallino: servire la verità, non le convenienze corporative.

Quale giustizia può scaturire da un sistema fondato su falsità accettate (per usare un eufemismo) per pigrizia intellettuale?

Il tradimento inizia quando l’avvocato antepone la “colleganza” viziosa agli interessi del cittadino, violando il mandato ricevuto e calpestando i principi fondamentali democratici.

La perversa logica del “do ut des” forense trasforma i tribunali in mercati delle vacche, dove si contrattano sentenze invece di accertare fatti.

L’uguaglianza davanti alla legge diventa una beffa per chi non può permettersi di entrare nei giochi di potere.

Si tratta di un’aberrazione etica che trasforma il processo in un teatrino dove si barattano le sorti umane al prezzo di equilibri corporativi.

Il mandato conferito al legale trova legittimazione nei principi inviolabili dello Stato di Diritto. Impone una guerra giudiziaria senza quartiere per la verità: ogni elemento probatorio deve essere dissezionato con acribia chirurgica, ogni contraddizione smascherata come un cancro da estirpare, ogni lacuna investigativa colmata attraverso iniziative processuali che onorino lo Stato di diritto.

Il vero veleno della giustizia italiana è la logica del “cane non morde cane” – quella solidarietà corporativa che trasforma l’avvocatura in branco di animali che si proteggono a vicenda invece di servire la giustizia.

Questa mentalità predatoria è alla radice di innumerevoli ingiustizie: quando un avvocato dovrebbe attaccare duramente un collega per smascherare falsità processuali, si limita a gesti di convenienza, a colpi di fioretto innocui che non scalfiscono la menzogna.

Il tradimento raggiunge il vertice dell’abiezione quando l’avvocato vince per il cliente che ha ragione, ma vince sporcando la vittoria con la complicità verso chi aveva torto.

È la vittoria mutilata dalla colleganza, il trionfo castrato dal rispetto verso il branco: l’avvocato ottiene il risultato minimo indispensabile per non tradire palesemente il mandato, ma evita di demolire le bugie della controparte.

Emblematica di questa degenerazione è la prassi della “camera caritatis” – il vertice dell’ignominia antidemocratica. Quegli accordi sottobanco dove si spartiscono vittorie e sconfitte come bottino di guerra trasformano il processo in una farsa pre-scritta, calpestano il principio fondamentale che impone a tutti i cittadini la fedeltà alle istituzioni democratiche e il rispetto della legalità.

Come può un avvocato definirsi servitore dello Stato di diritto mentre mercanteggia la giustizia in accordi segreti? Gli avvocati che si accordano preventivamente per “non farsi reciproci sgambetti” stanno violando il principio cardine per cui la responsabilità è personale e non può essere oggetto di baratto corporativo.

Esiste una verità storica che prescinde dalle sentenze giudiziarie.

Piaccia o no! I fatti accaduti non cambiano natura per essere stati distorti in un’aula di tribunale: la realtà rimane realtà anche quando viene mistificata da avvocati complici o ignorata da giudici conniventi. La verità storica è un dato oggettivo che nessuna sentenza può alterare, e l’avvocato che tradisce questa verità per ottenere un successo processuale sta commettendo un crimine contro la democrazia stessa.

Come spezzare questa catena di corruzione che avvelena la giustizia italiana?

La risposta esige misure drastiche e immediate, perché solo una shock therapy può estirpare secoli di putrefazione corporativa.

Contro la colleganza criminosa serve l’introduzione del reato specifico di “accordi sottobanco tra avvocati”, punibile con radiazione automatica e risarcimento pari al doppio del danno causato. La registrazione obbligatoria di tutte le comunicazioni tra colleghi durante i procedimenti, sotto controllo di commissioni di vigilanza composte da cittadini estratti a sorte.

Algoritmi di controllo devono individuare i pattern sospetti nelle sentenze, mentre ispezioni a sorpresa negli studi legali devono sequestrare le prove della connivenza.

Contro il falso in atti giudiziari l’inasprimento delle sanzioni diventa imperativo categorico: radiazione automatica per falso documentale, interdizione dai pubblici uffici per dieci anni, procedimento d’urgenza presso tribunali specializzati con giudici esterni al distretto.

La blockchain giudiziaria deve tracciare ogni documento, l’intelligenza artificiale smascherare ogni contraddizione, mentre un database nazionale delle falsità accertate deve marchiare a fuoco i traditori della verità.

La rivoluzione strutturale deve passare attraverso il commissariamento degli ordini più corrotti, lo scioglimento per mafia delle associazioni colluse, l’incompatibilità territoriale che vieti l’esercizio nello stesso distretto per oltre dieci anni.

Premi pubblici per chi denuncia i colleghi corrotti e corruttori, corsie preferenziali per i procedimenti degli avvocati “puliti”, sgravi fiscali per chi collabora con la giustizia: solo incentivi e sanzioni draconiane possono spezzare l’omertà corporativa.

La trasparenza totale deve annientare ogni zona d’ombra: pubblicazione online di tutti gli atti processuali, valutazioni pubbliche degli avvocati da parte dei clienti, registro nazionale delle sanzioni disciplinari consultabile da ogni cittadino.

Giurie popolari nei procedimenti disciplinari, osservatori civici nei tribunali, comitati di controllo con rappresentanti dei consumatori: la sovranità popolare deve riprendere il controllo della giustizia.Il cittadino rivendica il diritto inalienabile a vedere riconosciuta la verità dei fatti, indipendentemente dalle convenienze processuali o dalle pressioni del sistema.

Questo diritto non può essere sacrificato né sull’altare della pigrizia professionale, né su quello della connivenza corporativa.

La giustizia vera non conosce compromessi quando in gioco c’è la verità sostanziale. Il cliente che esige questo standard non sta chiedendo l’impossibile: sta semplicemente pretendendo ciò che la deontologia professionale e la Costituzione gli garantiscono.Dove c’è verità, lì c’è diritto.

Questa non è utopia, ma l’unica strada per restituire dignità democratica a una professione che ha tradito la propria missione costituzionale.

Il cittadino del XXI secolo non accetta più di essere ostaggio di un sistema corrotto: pretende giustizia autentica, non simulacri processuali.La giustizia non può essere questione di sordidi mercanteggiamenti tra professionisti senza scrupoli quando lo Stato di diritto garantisce a ogni cittadino il diritto inviolabile alla verità. Solo attraverso questa rivoluzione democratica l’avvocatura potrà riconquistare credibilità e la giustizia potrà tornare a essere degna di una democrazia fondata sul diritto.

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