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“Quando un dolce diventa un ponte tra culture”. Di Marinella Andaloro

Last updated: 23/04/2025 6:27
By Redazione 428 Views 11 Min Read
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Esiste un momento preciso durante i miei viaggi in cui ogni sensazione di estraneità svanisce.

Non accade davanti a un monumento celebre o catturando l’ennesimo panorama mozzafiato, ma attorno a una tavola, nell’istante in cui mi viene offerto quel particolare dolce che, incredibilmente, riesce a raccontarmi di casa.

Fu così quella sera ad Abu Dhabi. Il Ramadan avvolgeva la metropoli in un’aura di quieta attesa, trasformando il trambusto quotidiano in una calma meditativa. Mohamad Al Suwaidi, non più semplice amico ma presenza fraterna nella nostra vita, ci aveva accolti nella sua dimora per l’iftar.

Mentre il sole scivolava sotto l’orizzonte tingendo d’oro le ampie vetrate, la tavola si arricchiva di piatti dai profumi seducenti.

Ma fu l’ultima portata a catturare completamente la mia attenzione.

“Cosa sono queste?” domandai, gli occhi fissi su quelle perfette sfere dorate che catturavano la luce ambrata del lampadario.”

Luqaimat,” rispose Mohamad con la delicatezza di chi pronuncia il nome di un tesoro familiare. “Il termine significa ‘piccoli bocconi’. Assaggiale.”

Ne sollevai una con le dita. La superficie croccante cedette al primo morso, rivelando un interno soffice come una nuvola. Lo sciroppo di datteri si diffuse sulla lingua in un’onda dolce, arricchito dalle note speziate del cardamomo e dall’inconfondibile essenza della frittura appena fatta.

Chiusi gli occhi istintivamente. In quel momento avvenne la magia: non ero più negli Emirati Arabi, ma nella cucina della mia casa in Sicilia, dove le sfinci per la festa di San Giuseppe prendevano forma con identica dedizione, portando con sé ricordi d’infanzia, tradizioni familiari, affetti profondi.”

Sai,” dissi a Mohamad riaprendo gli occhi, “nella mia terra abbiamo un dolce quasi identico. Le chiamiamo sfinci.” Il suo volto si illuminò in un sorriso di genuina soddisfazione. “Allora è deciso. Da oggi, quando verrai qui, queste saranno le sfinci di Abu Dhabi.”

Nel corso delle mie esplorazioni, non ho mai incontrato una cultura che non celebrasse, in qualche forma, la magia dell’impasto fritto. È come se questo metodo di preparazione, nella sua semplicità primordiale eppure trasformativa, avesse tracciato una via invisibile attraverso secoli e continenti, adattandosi a ingredienti e tradizioni locali senza mai perdere la sua fondamentale promessa di conforto e gioia.

Li ho scoperti, questi parenti delle luqaimat, negli angoli più disparati del pianeta. A New York, i donuts hanno accompagnato le mie passeggiate invernali tra i vicoli di Manhattan, quando il vapore che saliva dai chioschi si mischiava al respiro condensato nell’aria gelida. Al Cairo, durante un matrimonio egiziano, le zalabya galleggiavano in bacini di miele aromatizzato, offerte come simbolo augurale di dolcezza per la vita futura. A Istanbul, un anziano artigiano di lokma mi rivelò che nelle case turche questo dolce appare nei momenti di celebrazione e gioia, come un messaggero edibile di felicità.

Ovunque, la stessa straordinaria alchimia: acqua, farina e zucchero trasformati dal calore dell’olio bollente in qualcosa che trascende la somma dei suoi ingredienti.”

Qual è l’origine delle luqaimat?” chiesi a Mohamad durante una visita successiva, ormai affascinata dalla storia di questo dolce.

Si passò pensosamente la mano sulla barba curata. “Non è semplice tracciarne l’origine con certezza. Gli Emirati sono sempre stati un crocevia di culture. Mercanti che attraversavano deserti, beduini nomadi, pescatori di perle… ciascuno ha contribuito con un frammento alla nostra tradizione culinaria.”

Mi raccontò dell’affascinante teoria secondo cui le luqaimat potrebbero discendere dal luqmat al-qadi – letteralmente “il boccone del giudice” – una delizia dell’Iraq medievale del XIII secolo.

La leggenda narra che questo dolce fosse così irresistibile da poter influenzare persino le decisioni più severe nelle aule di tribunale.

Seduti sui morbidi cuscini del suo giardino interno, avvolti dal profumo persistente di datteri, ci perdemmo in ipotesi.

Forse furono i mercanti a diffondere questa ricetta lungo le antiche rotte commerciali? O forse l’intuizione di friggere palline di pasta dolce nacque indipendentemente in diverse civiltà, come risposta a quel desiderio universalmente umano di trasformare ingredienti quotidiani in momenti di celebrazione?

Non giungemmo a conclusioni definitive, ma compresi che parte della magia delle luqaimat risiede proprio in questa ambiguità, in questa capacità di appartenere simultaneamente a tutti e a nessuno.

Da quell’iniziale scoperta è nato un rituale che supera ogni lontananza. Ogni volta che torniamo ad Abu Dhabi, so che Mohamad farà preparare le sfinci. Saranno sempre lì, quelle piccole sfere dorate, a darci il benvenuto come un codice segreto tra noi.

Durante queste visite, Mohamad mi racconta come sua madre preparasse esattamente lo stesso dolce, seguendo l’insegnamento di sua nonna, in una catena ininterrotta di conoscenza tramandata attraverso generazioni di donne emiratine.

Mi spiega come durante il Ramadan le luqaimat rappresentino molto più di una semplice leccornia: sono la ricompensa tanto attesa dopo una giornata di digiuno, sono il catalizzatore che riunisce famiglie intere, sono la manifestazione tangibile di generosità e abbondanza.Io gli parlo delle nostre sfinci siciliane, di come nella mia famiglia le preparavamo per onorare San Giuseppe, di come la cucina si animasse di conversazioni e risate mentre l’impasto veniva lavorato con cura, di come il profumo inconfondibile della frittura si diffondesse per casa come un richiamo irresistibile che radunava tutti attorno al tavolo.

E mentre condividiamo questi racconti, realizziamo che, nonostante i chilometri e le differenze culturali che ci separano, custodiamo memorie affettive sorprendentemente simili, tutte legate a un semplice impasto fritto e al suo potere di creare connessioni.

Le luqaimat, come tutti i loro equivalenti globali, incarnano il cibo della spontaneità e dell’affetto autentico. Sono l’antitesi della formalità distante, sono l’espressione quintessenziale dell’ospitalità genuina.

Quando Mohamad porge il vassoio colmo di luqaimat ancora tiepide, compie un gesto antico quanto la civiltà umana: accogliere il visitatore offrendogli il meglio che la casa può dare. E accettando, si entra in una danza di reciprocità che supera qualsiasi barriera linguistica o culturale.

Non servono spiegazioni elaborate: quel “piccolo boccone” comunica con eloquenza silenziosa.

Dice: “Sei benvenuto qui.” “Gli Emirati,” mi spiegò Mohamad una sera, “sono sempre stati un crocevia dove le influenze persiane, indiane, yemenite, omanite e beduine si sono stratificate nel corso dei secoli. Commercianti dall’Asia, navigatori dall’Africa orientale e nomadi dalla penisola arabica hanno tutti lasciato la loro impronta nella cucina locale.” “È come la tua Sicilia,” osservò con sorprendente intuizione.

E aveva ragione. Anche la mia isola, al centro del Mediterraneo, ha visto passare Greci, Fenici, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni e Spagnoli, ciascuno dei quali ha contribuito al nostro patrimonio gastronomico.

Non potei fare a meno di sorridere a questa connessione inaspettata: due terre distanti, entrambe plasmate da secoli di incontri tra popoli, entrambe custodi di ricette che raccontano storie di conquiste, scambi e convivenze.

Forse non era un caso che sia negli Emirati che in Sicilia un dolce fosse diventato simbolo di identità e accoglienza.

Ogni nuovo viaggio mi conferma una verità apparentemente contraddittoria: il nostro mondo è simultaneamente più ampio e più intimo di quanto immaginiamo.

Vasto nella straordinaria diversità delle sue espressioni culturali, sorprendentemente piccolo nella ricorrenza di archetipi comuni, di necessità fondamentali che accomunano l’esperienza umana ovunque.

Le luqaimat e le sfinci, nella loro innegabile somiglianza, testimoniano che anche popolazioni cresciute a migliaia di chilometri di distanza, parlanti lingue diverse e praticanti religioni differenti, possono convergere verso intuizioni culinarie praticamente identiche.

Dimostrano che, al di là di tutto ciò che ci distingue, condividiamo lo stesso impulso a elevare il nutrimento a piacere, la stessa inclinazione a creare istanti di dolcezza nelle nostre vite, la stessa tendenza ad attribuire al cibo significati che trascendono ampiamente la semplice necessità di sostentamento.

Quando assaporo una luqaimat, percepisco molto più del suo sciroppo di datteri. Sento l’eco delle risate familiari durante la preparazione delle sfinci in Sicilia, il tepore della cucina nei giorni di festa, la continuità di una tradizione che è parte integrante della mia identità. E contemporaneamente, avverto la generosità sincera di Mohamad, l’ospitalità radicata nella cultura emiratina, il fascino di una civiltà che ha saputo preservare la propria essenza nonostante il vertiginoso processo di modernizzazione che l’ha investita.In quel “piccolo boccone” si fondono il mio passato e il mio presente, l’identità di origine e quella acquisita attraverso l’esperienza del viaggio.

Si intrecciano Oriente e Occidente, tradizione ancestrale e scoperta continua.E così, morso dopo morso, le luqaimat mi ricordano una verità fondamentale: per quanto possiamo apparire diversi in superficie, condividiamo tutti la stessa fame profonda – non solo di nutrimento, ma di connessione, di appartenenza, di convivialità autentica.

E talvolta, per sentirsi veramente a casa ovunque nel mondo, basta un “piccolo boccone” che parla la lingua universale dell’ospitalità.

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