Sicilia Tradita: 15 anni dopo
Quindici anni.
Quindici anni da quando, in un impeto di sdegno civile, tracciavo con penna tremante ma lo sguardo lucido, l’anatomia del disfacimento siciliano.
Quindici anni. Un tempo sufficiente per ricostruire un Paese. In Sicilia, invece, sono bastati a perfezionare un disastro.
Scrivevo da lontano, con l’amarezza di vedere la mia terra bruciare nell’indifferenza generale. E con la speranza, ostinata, che la denuncia potesse scuotere coscienze assopite.
Quindici anni dopo, tornando a scrutare ciò che ho dovuto lasciare per non assistere ogni giorno al suo sfregio, constato con amarezza che nulla è mutato. Anzi: il degrado morale, politico ed economico che denunciavo si è sublimato in sistema.
Quello che appariva come corruzione latente è divenuto modello istituzionale. Quei “colletti bianchi” che si ammantavano di retorica antimafiosa mentre perpetravano il saccheggio sistemico delle risorse pubbliche, oggi siedono sui troni del potere con rinnovata arroganza. Promossi a custodi istituzionali del disastro, a depositari della continuità nel malaffare, insigniti di incarichi, consulenze, ruoli apicali. Con il PNRR al posto dei fondi europei, con nuove sigle ma identica voracità predatoria.
Nel 2010, stigmatizzavo l’esistenza di una “mafia dell’antimafia” un sistema che trasformava i fondi pubblici in prebende e le associazioni in paraventi. Oggi quell’apparato opaco è divenuto prassi consolidata. Le procedure pubbliche sono farsa kafkiana del diritto amministrativo. Le graduatorie si materializzano e svaniscono come miraggi nel deserto, ritoccate nelle ore notturne da alchimisti burocratici. Gli incarichi si elargiscono per chiamata diretta, in una liturgia grottesca che celebra l’eterno ritorno degli stessi volti, delle medesime consorterie.
E mentre questo carnevale della mediocrità si perpetua, i giovani continuano il loro esodo biblico. Non per spirito d’avventura o ambizione cosmopolita, ma per mera sopravvivenza intellettuale e morale.
Il clientelismo -che già definivo “pizzo legalizzato”- oggi si presenta come welfare: mille euro al mese, spesso meno, per contratti a termine, figli di promesse elettorali. Mille euro al mese per il silenzio. Un baratto infame tra dignità e consenso.
Ma la vera dignità, in Sicilia, si paga con l’emarginazione: chi non si prostra, viene ostracizzato. Chi denuncia, emarginato. Sistematicamente.
Oggi, la criminalità organizzata non si limita più a infiltrare le istituzioni: è diventata istituzione. La criminalità contemporanea ha abbandonato la violenza esplicita per abbracciare l’eleganza corrotta della procedura. Quei mammasantissima non sparano: appongono firme. Non estorcono: deliberano.
La legalità è diventata messinscena. Un evento da calendario. La medesima classe dirigente che quindici anni or sono denunciavo come “mediocre, corrotta, autoreferenziale e parassitaria” continua a dominare incontrastata. Mutano le fisionomie, non i metodi.
La Regione rimane un laboratorio di inefficienza strutturale, un esperimento di dissoluzione amministrativa. I comuni languono prigionieri di beghe locali, ostaggi di piccoli satrapi dell’assistenzialismo. Le infrastrutture collassano, la sanità regredisce, i fondi si volatilizzano, i bilanci si “armonizzano” attraverso alchimie contabili di dubbio rigore. Ma le promesse elettorali, quelle proliferano coltivate con zelo da professionisti dell’influenza.
La giustizia sociale è ormai una chimera. La meritocrazia, un’eresia.
Eppure, scorgo ancora anime ostinate, quelle figure luminose di chi resiste. Piccoli titani quotidiani che, armati solo della propria coscienza, continuano a combattere. Con l’integrità. Con il coraggio della solitudine. Con l’arma inossidabile della verità.
Questa Sicilia necessita di essere narrata con voce rinnovata, ma con immutata indignazione. Perché l’indignazione costituisce imperativo civile. Perché chi non si indigna si rende complice.
E perché questa terra, bellissima e dannata, non può più tollerare di essere tradita. Né dai suoi rappresentanti, né dai suoi cittadini.
È Tempo di Scegliere. Ancora.
O la complicità silenziosa. O la ribellione civile.
Chi tace oggi, domani sarà servo.
Un tempo si diceva “Sicilia, terra di mafia”. Oggi dovremmo affermare: “Sicilia, terra dove la mafia si è laureata – per raccomandazione – in scienze dell’amministrazione pubblica, pervertendone però ogni principio.
Ma finché ci sarà anche solo una voce disposta a denunciare che il re è nudo, a impugnare la penna come arma civile, il silenzio non prevarrà.
E forse, tra le macerie, qualcosa di vivo resisterà. Si chiama speranza.

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