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Il ferro va in Algeria, il rischio resta in Italia

Last updated: 30/07/2025 6:18
By Redazione 111 Views 6 Min Read
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Il governo finanzia un impianto DRI in Algeria con garanzie pubbliche. Zero impatto industriale per l’Italia, ma rischio altissimo

Contents
Un impianto senza vantaggi tecniciUna localizzazione che favorisce il rischioLe alternative mai considerateSi precisa: la pubblicazione di un articolo e/o di un’intervista scritta o video in tutte le sezioni del giornale non significa necessariamente la condivisione parziale o integrale dei contenuti in esso espressi. Gli elaborati possono rappresentare pareri, interpretazioni e ricostruzioni storiche anche soggettive. Pertanto, le responsabilità delle dichiarazioni sono dell’autore e/o dell’intervistato che ci ha fornito il contenuto. L’intento della testata è quello di fare informazione a 360 gradi e di divulgare notizie di interesse pubblico. Naturalmente, sull’argomento trattato, caltanissetta401.it è a disposizione degli interessati e a pubblicare loro i comunicati o/e le repliche che ci invieranno. Infine, invitiamo i lettori ad approfondire sempre gli argomenti trattati, a consultare più fonti e lasciamo a ciascuno di loro la libertà d’interpretazione.

Il 24 luglio il governo italiano ha firmato con l’Algeria un’intesa da un miliardo di euro per costruire un impianto per la produzione di Dri (Direct reduced iron) nella zona industriale di Annaba. L’operazione, celebrata come tassello fondamentale del Piano Mattei, prevede la nascita di una joint venture italo-algerina, con il possibile utilizzo delle garanzie pubbliche offerte da Sace. Ma dietro la retorica del partenariato “alla pari” si addensano dubbi pesanti.

Un impianto senza vantaggi tecnici

Dal punto di vista tecnico-industriale, la localizzazione ad Annaba non regge il confronto con alternative più razionali. L’Algeria non possiede giacimenti di minerale ferroso di qualità: il ferro verrà importato da paesi terzi, preridotto in loco con gas naturale e poi spedito via mare in Italia in forma di HBI (Hot Briquetted Iron). Una catena logistica lunga, costosa e, soprattutto, inefficiente.

Secondo Midrex Technologies, la principale azienda produttrice di impianti Dri, il vero vantaggio di questo processo sta nella “carica a caldo”: usare il preridotto direttamente nei forni elettrici, ancora a temperature elevate. In questo modo si risparmiano tra i 120 e i 150 kWh per tonnellata e si ottiene un incremento della produttività fino al 35%. Tenova, produttrice della tecnologia Energiron, conferma che il beneficio esiste solo se produzione e fusione avvengono nello stesso sito. La logistica navale, che impone il raffreddamento del Dri e il successivo ri-riscaldamento in Italia, rende vano l’intero processo.

Anche l’aspetto ambientale ne esce depotenziato. Eurofer, la federazione europea dell’acciaio, ha segnalato nel 2022 che la lunga filiera logistica dell’Hbi annulla parte rilevante del vantaggio ambientale rispetto al ciclo integrale tradizionale. Sulla carta è acciaio “green”. Nei fatti, molto meno.

Una localizzazione che favorisce il rischio

Annaba non è un territorio neutro. La regione è classificata da Freedom House come “non libera”. La Banca Mondiale registra una burocrazia tra le più lente e opache del continente. Non esiste un accordo bilaterale di protezione giuridica degli investimenti. Eppure, l’Italia sta per impegnare fondi pubblici per costruire una parte della sua filiera industriale in un contesto così fragile.

Senza contare il metodo. Il Parlamento non è stato coinvolto. Nessuna analisi costi-benefici è stata resa pubblica. Secondo Milano Finanza (23 luglio), all’interno del governo sarebbero emerse riserve da parte del Ministero dell’Economia e di quello dell’Ambiente, proprio sulla solidità dell’operazione. Almeno che non si tratti più di un’iniziativa diplomatica che industriale. Con benefici concentrati e rischi condivisi.

Le alternative mai considerate

Eppure, alternative industrialmente più solide e già discusse negli ambienti tecnici e sindacali ci sarebbero: un impianto Dri in Italia, alimentato dallo stesso gas algerino che oggi attraversa il Mediterraneo via gasdotto. Piombino e Taranto sono sedi industriali esistenti, dotate di infrastrutture, manodopera e prossimità ai forni elettrici. L’impianto resterebbe sotto giurisdizione italiana. Creerebbe occupazione diretta. E offrirebbe benefici industriali immediati. La stessa Federacciai ha sostenuto pubblicamente questa ipotesi.

Al contrario, si procede verso una struttura offshore, in un contesto instabile, con un impatto ambientale incerto, finanziata da garanzie pubbliche e priva di verifiche indipendenti. L’Italia si assume il rischio, ma non ha voce sulle condizioni. L’Algeria, primo fornitore di gas dell’Italia, ottiene un impianto, occupazione e know-how. L’Italia rinuncia alla possibilità di rafforzare la propria filiera industriale.

Il Piano Mattei avrebbe dovuto promuovere “una cooperazione tra pari”, secondo le parole del governo. Ma in questo caso, l’unica cosa bilanciata è il racconto. Per il resto, il progetto sembra un tipico caso in cui le perdite si socializzano, e i vantaggi si concentrano. E tutto senza che nessuno abbia potuto discuterne. Nemmeno in aula.

Fonte LANOTIZIAGIORNALE.IT di Giulio Cavalli

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Si precisa: la pubblicazione di un articolo e/o di un’intervista scritta o video in tutte le sezioni del giornale non significa necessariamente la condivisione parziale o integrale dei contenuti in esso espressi. Gli elaborati possono rappresentare pareri, interpretazioni e ricostruzioni storiche anche soggettive. Pertanto, le responsabilità delle dichiarazioni sono dell’autore e/o dell’intervistato che ci ha fornito il contenuto. L’intento della testata è quello di fare informazione a 360 gradi e di divulgare notizie di interesse pubblico. Naturalmente, sull’argomento trattato, caltanissetta401.it è a disposizione degli interessati e a pubblicare loro i comunicati o/e le repliche che ci invieranno. Infine, invitiamo i lettori ad approfondire sempre gli argomenti trattati, a consultare più fonti e lasciamo a ciascuno di loro la libertà d’interpretazione.

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