In un’aula di tribunale, un giudice della Cassazione definisce un sistema di potere “sovranità assoluta su tutto e tutti”, riconoscendo una rete di controllo che si estendeva su governi, associazioni, apparati. Eppure, quello stesso tribunale nega l’associazione. È un paradosso che rivela le contraddizioni di un’intera epoca: quella in cui verità processuale e verità fattuale abitano universi paralleli che non si incontrano mai.
Il sistema che ruotava attorno alla figura di Montante non era un’anomalia ma il prodotto perfetto di una mutazione: l’antimafia è passata da risposta sociale spontanea a macchina rituale che perpetua ciò che dovrebbe eliminare. È il paradosso dell’anticorpo che diventa virus, del movimento che si istituzionalizza perdendo la capacità di movimento.
Dal punto di vista antropologico, quel sistema incarnava la nascita di una nuova tribù urbana: gli “antimafiosi professionali” con i loro codici, linguaggi e gerarchie. Come ogni tribù, aveva riti iniziatici (l’investitura mediatica), totem (le foto dei martiri strumentalizzate), tabù (il dissenso interno), sciamani (i consulenti del potere). Aveva sviluppato persino una propria economia sacrificale: viveva del sangue versato da altri, lo trasformava in capitale simbolico, lo reinvestiva in controllo sociale.
Questo meccanismo si inseriva in una dinamica più ampia della nostra epoca: la “democratizzazione delle guerre”. Come i conflitti armati esportano democrazia attraverso la violenza, così il sistema antimafia si era trasformato in esportatore di legalità attraverso l’illegalità dei suoi metodi. Combatteva il sistema mafioso adottandone le logiche del controllo del territorio, della distribuzione di favori, delle reti clientelari, dell’eliminazione simbolica dei nemici.
Il paradosso più inquietante è che quel sistema, nella sua forma degenerata, aveva creato le condizioni ideali per la sopravvivenza della mafia stessa. Ogni nomina, ogni premio diventava catarsi collettiva che liberava le coscienze senza toccare i meccanismi reali del potere. Era l’illusione del cambiamento che impediva il cambiamento vero.
La natura del potere contemporaneo si rivelava in tutta la sua sofisticazione. Non aveva più bisogno di reprimere l’opposizione: le bastava cooptarla, trasformarla in spettacolo, svuotarla dall’interno. Il potere liquido di Bauman trovava qui la sua manifestazione più raffinata: non si opponeva alla resistenza, la assorbiva e la metabolizzava.
L’alveare attorno alla figura centrale non era composto solo da complici consapevoli, ma soprattutto da una galassia di “utili idioti”: imprenditori, politici, giornalisti, intellettuali che credevano sinceramente di servire la legalità mentre alimentavano un sistema di controllo sociale. Era la perfezione del potere moderno: farsi servire da chi crede di opporvisi.
Quel sistema aveva perfezionato l’arte dell’inversione semantica. Il colluso diventava paladino, l’oppressore si trasformava in eroe. Aveva creato un linguaggio dove le parole perdevano il significato originario per assumere quello funzionale al potere: legalità significava controllo, trasparenza significava opacità selettiva, antimafia significava mafia con altri mezzi.
Chi ha vissuto quel sistema si trova oggi di fronte a un doppio schiaffo: la violenza subita viene negata giuridicamente e neutralizzata simbolicamente. È il “gaslighting” applicato su scala sociale: convincere le vittime che la loro esperienza era immaginaria.
Il vero scandalo non è la figura centrale di quel sistema, ma la macchina che lo ha generato e che continua a generare sistemi identici. Una macchina che ha bisogno di capri espiatori per autoassolversi, di nemici esterni per nascondere le contraddizioni interne. Quella figura è ora disinnescata, ma la macchina continua a funzionare imperturbabile.
La memoria di chi si è opposto, ridotta a liturgia vuota, trasformata in sterile simulacro fatto di steli commemorative e rituali di maniera, subisce una metamorfosi perversa: da strumento di giustizia diventa trofeo da esibire. Chi è caduto per opporsi viene tradito due volte: prima dall’abbandono delle istituzioni, poi dall’ipocrisia di chi ne strumentalizza il ricordo per costruire nuovi sistemi di potere.
Siamo di fronte a un meccanismo che si autoalimenta attraverso la propria negazione. È la mafia dell’antimafia: un potere che non ha bisogno di nascondersi perché si è camuffato da opposizione a se stesso.
Eppure, riconoscendo questa deriva sistemica, si apre lo spazio per immaginare un’alternativa autentica. Un’antimafia che rinunci alla spettacolarizzazione per tornare all’azione silenziosa, che abbandoni i riflettori per operare nelle pieghe del quotidiano, che smetta di cercare leader carismatici per costruire pratiche collettive orizzontali. Un’antimafia che non distribuisce patenti di legittimità perché pratica l’inclusione.
Forse utopica, ma l’utopia è l’unica realtà possibile quando la realtà stessa è diventata la riproduzione infinita dello stesso sistema di potere sotto maschere diverse.
———-
Per rimanere aggiornato sulle ultime notizie locali segui gratis il canale WhatsApp di Caltanissetta401.it https://whatsapp.com/channel/0029VbAkvGI77qVRlECsmk0o
Si precisa: la pubblicazione di un articolo e/o di un’intervista scritta o video in tutte le sezioni del giornale non significa necessariamente la condivisione parziale o integrale dei contenuti in esso espressi. Gli elaborati possono rappresentare pareri, interpretazioni e ricostruzioni storiche anche soggettive. Pertanto, le responsabilità delle dichiarazioni sono dell’autore e/o dell’intervistato che ci ha fornito il contenuto. L’intento della testata è quello di fare informazione a 360 gradi e di divulgare notizie di interesse pubblico. Naturalmente, sull’argomento trattato, caltanissetta401.it è a disposizione degli interessati e a pubblicare loro i comunicati o/e le repliche che ci invieranno. Infine, invitiamo i lettori ad approfondire sempre gli argomenti trattati, a consultare più fonti e lasciamo a ciascuno di loro la libertà d’interpretazione.
