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DEI SERVITORI INFEDELI DELLO STATO. Di Marinella Andaloro

Last updated: 12/10/2025 18:09
By Redazione 189 Views 7 Min Read
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L’articolo 54 della Costituzione impone disciplina ed onore.
Essi lo violentano quotidianamente.

Si ammantano di legalità. Ostentano rigore. Predicano osservanza.
Menzogna.

Dietro l’irreprensibile facciata si cela il piccolo tiranno. Il burocrate frustrato che ha finalmente trovato nella scrivania il trono che la vita gli ha sempre negato.
Il tesserino, il timbro: strumenti di un potere meschino che compensa la l’insignificanza esistenziale.

Hanno compreso la verità: la funzione pubblica si prostituisce all’uso privatistico.

Si ergono a divinità minori dell’Olimpo burocratico. Scimmiottano pateticamente i boss del Padrino. La legge? Uno randello da brandire contro gli altri. Mai una regola che li vincoli.

Don Rodrigo da quattro soldi. Padroncini di quartiere che si atteggiano a capi bastone.

L’interesse generale? Finzione retorica per ingenui.

Si collocano al di sopra della Costituzione che spergiurano di servire. Legislatori di sé stessi. Giudici inappellabili delle proprie infamie. Sovrani assoluti dei loro luridi feudi amministrativi.

Moderni Caligola della carta bollata, si credono investiti dell’autorità dell’impunità. Il diritto divino del parassita inamovibile.

Mediocri. Ottusi. Vigliacchi.

Si sono ripiegati sulla versione protetta della prepotenza: il potere amministrativo esercitato senza scrupoli. Giocano a fare i padrini del territorio. Ma il loro territorio è una squallida scrivania di terza categoria.

Il cittadino vulnerabile? Non un soggetto da tutelare. Una preda su cui esercitare l’arbitrio mascherato da procedura. Un importuno che osa disturbare la loro olimpica indolenza. Uno a cui far capire chi comanda in quel metro quadro di meschinità che costituisce il loro regno.

La tecnica dell’oppressione è collaudata. Non violano apertamente la legge. Si trincerano dietro interpretazioni capziose come topi dietro il battiscopa.

Fortezza di carta protocollo. Castello di circolari. Esseri ignobili del Medioevo più oscuro.

Il regolamento diventa scudo della loro codardia. Armatura che li rende intoccabili. Lasciapassare per ogni sopruso.

Si sentono patres familias romani: titolari dello ius vitae ac necis sui cittadini che hanno la sfortuna di incrociare la loro scrivania.

“La norma dice che…” Formula ipocrita che vale solo contro chi non di gradimento. Assolve ogni vigliaccheria. Ogni diniego pretestuoso. Ogni umiliazione inflitta.

Gran sacerdoti di un culto spregevole. Il liturgico è il protocollo. Il dogma è la circolare ministeriale. L’eresia è la richiesta del cittadino che osa invocare diritti invece di elemosinare favori.

Ignoranza ottusa, aggressiva, oscena. Saldata all’arroganza della posizione inamovibile.

Faraoni patetici della propria piramide amministrativa.

Protetti da apparati che garantiscono anche l’incompetenza più manifesta. Da corporazioni con la solidarietà omertosa delle malavita. Da una cultura dell’impunità che infesta la pubblica amministrazione.

Massoni di un ordine che risponde solo alla propria avidità. Investiti di sacralità laica che puzza di ipocrisia. Esenti dal rispetto delle regole che impongono agli altri.

La vergogna? Concetto alieno per chi si è auto-incoronato despota del proprio ufficio.

Hanno venduto la coscienza per lo stipendio garantito. Per la certezza che nessuno scalfirà il loro trono di compensato.

Predicano uguaglianza formale. Praticano discriminazione sostanziale.

Animali più uguali degli altri nella fattoria orwelliana. Maiali in giacca e cravatta.

Lo stesso regolamento: ferocia dell’Inquisizione verso chi non può difendersi, servilismo disgustoso verso chi gode di protezioni.

Giudici supremi. Ma corrotti. Vendono sentenze al miglior offerente di favori.

L’imparzialità costituzionale si dissolve nella discrezionalità capricciosa del despota. Come i tiranni ellenistici disponevano della vita con un cenno del pollice.

Eredi spirituali dei prefetti romani che amministravano le province come proprietà personale. Forti con i deboli. Deboli con i forti.

Chi calpesta la dignità dei vulnerabili professandosi servitore dello Stato incarna il tradimento istituzionale nella sua forma più abietta.

Non ruba solo denaro pubblico. Ruba qualcosa di più prezioso: la fiducia nelle istituzioni, la speranza nella giustizia, la dignità umana.

E lo fa con la tracotanza di chi sa che il sistema lo proteggerà. Che nessuno chiederà conto. Che domani potrà ricominciare come ieri.

La collettività paga due volte.

Attraverso le imposte che mantengono questi traditori stipendiati. Attraverso la distruzione sistematica del patto sociale.

Ogni sopruso mascherato da atto dovuto. Ogni umiliazione inflitta con sorriso formale dell’ ipocrisia. Ogni diritto massacrato dietro lo schermo della procedura.

Corrode le fondamenta della democrazia più di qualsiasi nemico dichiarato.

Questi servitori infedeli non meritano indulgenza. Non comprensione. Non giustificazione.

Meritano denuncia pubblica. Stigmatizzazione sociale. Ostracismo civile.
Disprezzo eterno.

Hanno tradito il giuramento. Hanno violato la Costituzione. Hanno trasformato il servizio pubblico in strumento di oppressione personale.

Con la piena consapevolezza di chi sa la propria posizione intoccabile.

Quando chi dovrebbe tutelare la dignità ne diventa il carnefice. Quando chi dovrebbe servire lo Stato lo tradisce quotidianamente. Quando chi dovrebbe garantire i diritti li calpesta sistematicamente.

Non resta che la denuncia implacabile della loro infamia.

Pereat iustitia, dummodo salvetur eorum sedes.

E il mondo perisce davvero. Ogni giorno. Dietro ogni scrivania dove l’arbitrio si nasconde dietro il timbro. Dove la vigliaccheria si veste di finta legalità. Dove l’umanità muore sotto il peso della burocrazia brandita come clava.

E da un Paese del quarto mondo, ma del Medioevo, è tutto.

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