La Repubblica sospettata Dall’omicidio Impastato all’agenda di Falcone, non c’è solo via D’Amelio
Saranno i magistrati a stabilire il destino giudiziario di Filippo Piritore, l’ex prefetto finito ai domiciliari con l’accusa di aver depistato le indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella.
In attesa di capire che evoluzioni avrà l’inchiesta della procura di Palermo, si può dire che le indagini dei pm guidati da Maurizio de Lucia rafforzano un’opinione condivisa da tempo: se dopo quarantacinque anni non si conoscono ancora i nomi dei killer dell’ex presidente della Sicilia è anche perché il percorso di accertamento della verità è stato deviato.
Azioni depistanti che non potevano certo essere messe in atto da mafiosi o da terroristi neofascisti,
ma da esponenti dello Stato.
Una caratteristica condivisa da quasi tutti gli omicidi eccellenti: delitti compiuti da Cosa Nostra, ma che rispondono a interessi diversi da quelli mafiosi.
Il “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana” è quello di via D’Amelio, con Vincenzo Scarantino condannato per aver organizzato la strage di Paolo Borsellino e degli uomini della scorta.
Le bugie del balordo della Guadagna sono costate l’ergastolo a sette innocenti, scagionati solo dopo aver trascorso 18 anni al carcere duro.
Secondo la procura di Caltanissetta, Scarantino fu convinto a suon di botte ad autoaccusarsi della bomba di via d’Amelio. Sotto inchiesta sono finiti i poliziotti che all’epoca indagarono sulla strage: per tre (Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo) l’accusa di calunnia si è prescritta in Appello (della sentenza, emessa nel giugno 2024, si aspettano ancora le motivazioni). Per altri quattro
(Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco e Maurizio Zerilli) è ancora in corso il dibattimento di primo grado.
Rispondevano tutti agli ordini di Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che per i pm è colpevole di aver fatto sparire l’agenda rossa di Borsellino.
Collaboratore del Sisde (nome in codice Rutilius), La Barbera è morto nel 2002 e dunque non può fornire la sua versione dei fatti.
Di sicuro c’è solo che a rubare l’agenda non furono certo i mafiosi: troppo pericoloso aggirarsi nell’inferno di via d’Amelio subito dopo la strage.
Non potevamo essere uomini di Cosa Nostra neanche quelli che manomisero il computer di Giovanni Falcone, custodito al Ministero della Giustizia. Dopo il botto di Capaci, qualcuno riuscì a entrare
nell ’ufficio nonostante i sigilli: tra gli altri vennero modificati i file su Gladio, la struttura paramilitare segreta attiva durante la guerra fredda.
Nell’agenda elettronica che Falcone portava con sé, invece, furono manipolati gli appunti relativi proprio all ’omicidio Mattarella.
I file furono poi recuperati dal superconsulente Gioacchino Genchi, mentre è ancora oggi ignota l’identità degli hacker con accesso in via Arenula.
“Gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative” andarono in scena pure nelle indagini sull’omicidio di Peppino Impastato.
Almeno secondo il gip di Palermo, che nel 2018 archiviò l’indagine per favoreggiamento sul generale Antonio Subranni e altri tre carabinieri perché era scattata la prescrizione.
È il settembre del 1993, invece, quando Roberto Sipala si autoaccusa della strage di Firenze. Piccolo malavitoso di Catania, legato alla Stidda, racconta che tra i mandanti di via dei Georgofili c’è Silvio Berlusconi.
Passano cinque mesi e ritratta tutto: sostiene di essere stato convinto ad autoaccusarsi della strage da tre esponenti del Sisde, che gli avevano promesso denaro.
Una vicenda surreale che si conclude con una condanna per calunnia.
Ma pure con un inquietante interrogativo: prima di ritrattare, Sipala aveva raccontato che il Fiorino esploso in via dei Georgofili era stato preparato a Prato. E in effetti la base del commando era davvero in quella città. Ma all’epoca quest’informazione era ancora nota solo a chi aveva
davvero partecipato alla strage.
Fa IlFattoQuotidiano del 25/10/2025 di Giuseppe Pipitone
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