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Celebrazioni e polemiche. Continua la divisione sul 25 Aprile. Si può cambiare il futuro di una nazione, non alterare quanto successo

Last updated: 21/04/2025 8:12
By Redazione 122 Views 7 Min Read
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L’impressione è che ci prepariamo a celebrare, nell’occasione specialissima degli ottant’anni, una Resistenza dimezzata e una Liberazione con troppi distinguo

Quanto ai partigiani, che adesso vengono da più parti rinominati «patrioti», finiranno defilati, i pochi ancora in vita, come reduci di una guerra dove la loro parte sfuma sempre più sullo sfondo, quasi fosse un accidente o un fastidio. Tanto bastavano gli Alleati.

Forse sì, per spingere fuori dall’Italia chi la occupava militarmente. Certamente no, per fare dell’Italia una nazione indipendente e con una Costituzione costruita su misura per proteggere la neonata democrazia da ritorni di fiamma.

Si avvicina al vero, sia pure nei suoi toni inutilmente bruschi, il vicepresidente del Consiglio,
Matteo Salvini: «Il 25 Aprile è la festa di tutti, non solo dei comunisti».

A parte che i comunisti non esistono più in natura, la festa è effettivamente di tanti: chi ha creduto nel comunismo, ma anche i cattolici, i socialisti, gli azionisti, i liberali, i repubblicani, i militari che rifiutarono di combattere con i tedeschi, gli ebrei, le donne e gli uomini che rischiarono e persero la vita partecipando a una Resistenza che ci ha regalato una patria non più schiava della tirannide fascista e dell’occupazione nazista.

Solo gli irriducibili seguaci delle due ultime categorie, e i loro freschi e nostalgici sostenitori, non hanno niente da festeggiare.

Quindi, una festa «non di tutti» ma riservata a chi continua a pensare che essere italiani significa essere antifascisti perché il fascismo è stato una dittatura e gli italiani sono cittadini di una democrazia.

È stato più o meno così per 79 anni (primo esecutivo della Repubblica, De Gasperi II) e 67 governi.

Ma adesso, col governo numero 68, questa la linea di demarcazione in apparenza netta sembra per la prima volta rimessa in discussione.
Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, dice che il nuovo corso della destra di governo sta nel rivalutare le nostre radici.

Basta intendersi a quali si riferisca.
Sì, perché di radici la nostra patria ne ha almeno due. Una affonda i propri embrioni in un tempo neanche così remoto dove i valori erano «credere, obbedire, combattere ».

L’altra, nella loro antitesi.
La Liberazione è il seme della seconda, da cui poi germoglia la Repubblica che abitiamo e che si
fonda proprio sul contrario di quanto l’aveva preceduta, con in più contromisure per evitare riedizioni autoritarie più o meno mascherate.
La differenza tra questo 25 Aprile e gli altri che l’hanno preceduto sta nel fatto che proprio la destra
di governo, rafforzata da due anni e mezzo al comando del Paese, ha reso più esplicita la voglia di revisione su questioni riguardanti una memoria storica che si dava per sommi capi condivisa. Basti pensare al recente e inatteso attacco della presidente Meloni al Manifesto di Ventotene, scritto da pensatori mandati al confino da Mussolini, o al tentativo meno recente ma più clamoroso di riscrittura operato dal presidente del Senato La Russa sull’attentato partigiano di via Rasella, cui seguì il massacro delle Fosse Ardeatine, cioè una delle pagine più sacre del nostro passato prossimo. O forse, per una parte di italiani, passato remoto.

Anzi, trapassato.

Il ministro Giuli non sta a specificare le radici a cui si richiama, e va detto che i suoi ragionamenti
non sono sempre di immediata decifrazione.

Ma la direzione di marcia, o di retromarcia, è comunque piuttosto chiara, come dimostra la sua difesa della richiesta di Fratelli d’Italia di intitolare una rotonda di Firenze a Giovanni Gentile, ideologo di spicco e spessore del fascismo.

Alle proteste della sindaca Sara Funaro, che la riteneva una provocazione per una città medaglia d’oro della Resistenza («e proprio in questi giorni… »), Giuli ha replicato che contestare la targa a Gentile è «un atto neoprimitivo che nega la cultura per sottometterla all’ideologia».

E sembra di scorgere, in questo riferimento all’ideologia, un malcelato tentativo di bollare come superata ogni pretesa di rifarsi ai principi fondativi della nostra nazione e come tali inviolabili e immodificabili.
Non è più così, sarà sempre meno così.
A parte il presidente Sergio Mattarella, che ha scelto Genova per onorare la Liberazione, l’unica città
dove i nazisti si arresero ai partigiani, garantendo la sua presenza a uno spettacolo teatrale nato da
storie partigiane, non sono alle viste nell’agenda nazionale grandi celebrazioni né particolari attenzioni da parte delle sei reti televisive più vicine alla maggioranza (tre Rai più tre Mediaset). Eppure il 25 Aprile non è una «data rossa».

Dovrebbe essere una data di cordoglio per le vittime e di orgoglio per la riconquista di una Patria. Pietro Calamandrei, uno dei fondatori del Partito d’Azione, non proprio un rivoluzionario, che anzi nel 1931 giurò fedeltà al regime per non perdere la cattedra di professore, in un discorso rimasto celebre agli studenti di Milano del gennaio 1955, disse questo: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani».

Hanno ancora valore quelle parole?
Forti del consenso popolare, anche se non così esteso come si vorrebbe far passare, si può trasformare una democrazia figlia della Resistenza in un modello di Stato con altre radici e altre prospettive.
Si può, proprio perché siamo in una democrazia, cambiare il futuro di una nazione.

Quello che inquieta è pretendere di alterarne la Storia, modificando la genetica delle origini, il lascito dei resistenti.

Dal corriere della Sera di Carlo Verdelli

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