«Vi supplico di essere indignati», raccomandava Martin Luther King. E Stefano Cirillo, segretario regionale della Dc di Cuffaro, lo ha preso in parola. Così come il suo capo che citò il celeberrimo “Ho un sogno”, scambiando però “dream” e “drink”, con una gaffe che all’epoca fece ridere ma forse era un messaggio subliminale. Voleva dire: noi la storia ce la scriviamo a modo nostro, quindi il sogno può anche essere una bevuta, la “Nuova Dc” è uguale a quella antica di Sturzo e De Gasperi, il favoreggiamento ai mafiosi fu «un errore» e la riabilitazione penale, cioè l’estinzione dell’interdizione dai pubblici uffici per buona condotta, monda il condannato Cuffaro da ogni colpa e lo restituisce alla vita politica più candido di un’educanda.
In ossequio a questa autonarrazione, oggi il dottor Cirillo, ginecologo ed ex presidente dell’ospedale Giglio di Cefalù, si indigna per i contenuti dell’intervento di Emilio Miceli, presidente del Centro Pio La Torre, sul «cuffarismo di cui nessuno si era accorto» (chi non l’ha letto ieri può trovarlo sul sito di Repubblica Palermo) e in un veemente comunicato lo definisce «una forma di razzismo politico: un’etichettatura collettiva che trasforma migliaia di persone in un’unica categoria negativa da mettere alla gogna». Par di capire, al di là dei fumogeni di un’interpretazione vagamente paranoide di un ragionamento pacato, che Cirillo rimproveri a Miceli di fare di ogni erba un fascio, addossando a tutto un partito e ai suoi elettori le eventuali responsabilità del loro leader. Argomentazione speciosa. Per una vistosa contraddizione interna: se il suo partito è nato, si è radicato, ha ottenuto voti, seggi, assessorati e potere, è perché Cuffaro, uscito dal carcere, ha rinunciato al suo iniziale proposito di trasferirsi in Burundi ed è tornato a fare politica. Con la stessa ammirevole capacità di ascoltare la gente ma anche con gli stessi discutibili metodi che vent’anni fa l’economista Mario Centorrino e Repubblica battezzarono “cuffarismo”. Che non è un reato, ma ha negato alla Sicilia uno sviluppo da regione moderna, immobilizzandola nello scambio clientelare, nella spesa pubblica dispersa in mille rivoli di campanile, nelle assunzioni di favore, negli ammortizzatori sociali variamente concessi a scapito delle casse regionali e a beneficio dell’estesa base di una perfetta piramide di affiliazione.
Il cuffarismo, insomma, non è che il risultato di un’offerta politico-elettorale e di una domanda di massa, frutto dei mille bisogni di una terra in cui il malgoverno (non solo cuffariano) ha negato il lavoro, le infrastrutture, i collegamenti, la libertà dal giogo criminale, una sanità efficiente, perfino l’acqua nelle campagne e nelle case. Un sistema, dunque, che tiene tutto e tutti: chi chiede i voti e chi li dà, chi offre il favore e chi lo chiede perché gli appare l’unico possibile surrogato di un diritto che non c’è.
Se questo è il cuffarismo, se ha funzionato con Cuffaro al potere e non si è dissolto quando Cuffaro era in carcere, vuol dire che il sistema ha inghiottito come un blob maggioranze e opposizioni, è diventato normale modalità di governo. E quando Cuffaro è tornato in campo, ha indossato la maglia “Nuova Dc”, si è ripreso la palla e ha ricominciato a dettare il gioco. Perché nessuno sa fare quel gioco meglio di lui. Ecco perché dire che la Dc non c’entra con il cuffarismo è un assunto paradossale e infondato. Il che non significa che le eventuali responsabilità penali non siano personali né che chi milita in quel partito sia correo di qualcosa. La Dc di Cuffaro è stata un pezzo di quel sistema di governo, non un’associazione a delinquere. Quel poco di sorprendente che, in termini politici, emerge dall’ultima inchiesta è semmai un surplus di cinica arroganza che trasmettono certe intercettazioni. Comprese le battute di Cuffaro sul ruolo da parafulmine delle donne nella Dc. Quelle dirigenti, da Laura Abbadessa a Francesca Donato, che sembravano aver avuto un moto d’indignazione nel leggere quelle frasi, ma non risulta abbiano fatto passi indietro. Chissà se per scarsa forza o per poca libertà.
Liberi e forti, voleva i democristiani don Luigi Sturzo. Che non faceva commercio di aziende sanitarie, di appalti o di assunzioni. Aveva un sogno, lui.
Da palermo.repubblica.it di Fabrizio Lentini
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