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Dire “genocidio” non è un esercizio retorico

Last updated: 20/04/2025 9:48
By Redazione 136 Views 7 Min Read
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Nel novembre del 2024  è apparso sul Corriere della Sera un articolo di Liliana Segre in cui le argomentazioni per negare la portata del genocidio del massacro di palestinesi sono chiare e semplici, ma talmente poco consistenti che non è possibile far finta di nulla alla luce degli eventi che si sono susseguiti

Leggere le argomentazioni di chi contesta l’uso della parola “genocidio” per lo sterminio dei palestinesi potrebbe anche essere interessante, se fosse possibile considerarlo come un esercizio retorico che nulla ha a che fare con le vite umane di cui pretende di occuparsi.

Purtroppo c’è qualcosa di profondamente insano nelle sfide dialettiche con cui i contendenti cercano di vincere a colpi di capziosità linguistiche, falsi sillogismi, scivolose equivalenze logiche, quando l’argomento del contendere è la morte violenta. È una specie di malattia umana, esclusivamente umana, che ogni volta lascia sconvolti. Intrappolati in una ragnatela di inumanità, ci sentiamo perduti.

Nel novembre del 2024 però è apparso sul Corriere della Sera un articolo di Liliana Segre in cui le argomentazioni per negare la portata genocidaria del massacro di palestinesi sono chiare e semplici, ma talmente poco consistenti che non è possibile far finta di nulla. Poiché non esiste rispetto nell’adulazione, ma solo nel trattare gli argomenti dell’intelletto in quanto tali, due cose è necessario dirle. Del resto, l’argomentazione della senatrice non è capziosa, non punta a prevalere tanto per prevalere, non soffre della malattia umana dell’inumanità. Liliana Segre conosce la sofferenza e non è mai lontana dalla portata del massacro.

Il suo ragionamento è veloce: “Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali (…) Uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra. Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico”.

Ora, rispetto al primo punto, dispiace che la senatrice Segre non sia informata della lunga lista di dichiarazioni che in questi mesi sono state pronunciate dai principali attori del massacro. Non solo all’indomani dei fatti di inizio ottobre 2023, quando l’emozione poteva prevalere sulla ragione, ma in tutti questi mesi, gli inviti a spazzar via Gaza sono stati chiari. Certo nessuno ha scritto nero su bianco: vogliamo il genocidio. Ma non è certo necessario avere una prova del genere per assicurarsi della natura di frasi come “dimezzeremo la popolazione” ultima delle prese di posizione esplicite, pronunciata pochi giorni fa dal ministro Smotrich.

Più interessante però è il secondo punto. Spiega, Segre, che i genocidi non hanno rapporto con la guerra e quando accadono in guerra sottraggono mezzi all’impegno bellico. Ora la questione è proprio questa: l’eccidio di palestinesi a Gaza è una guerra? Davvero vogliamo chiamarla così? In guerra si fronteggiano due eserciti. Dov’è l’esercito palestinese? E qual è il Paese a cui è stata dichiarata guerra? Ma lasciamo stare, evitiamo di finire nella disputa nominalistica. E ragioniamo: ammesso che si voglia chiamarla guerra, non è evidente che è proprio in questa stessa guerra che consiste il genocidio? I mezzi potentissimi con cui Israele colpisce da mesi la Striscia di Gaza stanno radendo al suolo un mondo.

Le immagini che ci arrivano, nonostante il divieto di far entrare giornalisti, sono eloquenti. I numeri parlano da soli e chi sa dare a essi un senso, come certo è il caso della senatrice, non può permettersi errori di interpretazione. A Gaza è stato distrutto tutto: l’anagrafe, il catasto, le università, le scuole, e anche gli ospedali. Non c’è più nulla che permetta una vita dignitosa. E sotto queste sterminate macerie sono perduti quegli innumerevoli scomparsi che si aggiungono ai 60/70.000 morti certi, di cui il 60% bambini, un numero dato per difetto perché non esiste più modo di tenere il conto.

Senza parlare di tutti i morti che di questa epocale distruzione sono effetto indiretto – malati cronici, mutilati e infetti privi di cure – tanto che seri studi (di organizzazioni americane e israeliane) contano i morti oltre le 150mila unità.

E senza parlare di Gaza nord, di cui poco riusciamo ormai a sapere, ma quel che è certo è che una popolazione ormai ridotta fra le 65mila e le 75mila persone non riceve cibo da tantissimi giorni e dei centinai di tentativi che l’Onu ha fatto di consegnarne dal 6 ottobre scorso a oggi.

E dunque come vogliamo chiamare questo sterminio? Davvero si possono avere dei dubbi?

Del resto, il punto in fondo è ancora un altro: che senso ha questa discussione quando noi, tutti noi, stiamo avallando quel che accade?

Lo facciamo politicamente, economicamente, militarmente e culturalmente.

Forse è bene tornare a Socrate, quando ripeteva, di fronte alla sfrontatezza dei Sofisti, che poco importa la parola che usiamo, ma è bene intendersi sulla sostanza e non perdere il contatto con la realtà, con i grandi fatti e le grandi questioni dell’animo.

E insomma, siamo d’accordo o no che è necessario fare di tutto per fermare questo mostruoso eccidio?

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