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Giornalismo e coraggio: delle volte fare nomi o inchieste, pur provandoci, non è cosa semplice

Last updated: 23/08/2025 14:23
By Redazione 320 Views 11 Min Read
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Nell’era dei social media, la critica è a ormai facile e a portata di un click

Spesso, quando un articolo di giornale affronta temi delicati, specialmente in ambito locale, come ingiustizie sociali, malasanità, malapolitica o abusi sul lavoro, si leva un coro di voci che chiede a gran voce: “Perché non andate a verificare in prima persona?” o ancor peggio “Perché non fate i nomi?

“Vi manca il coraggio”, “Il vostro non è vero giornalismo”, “In citta non ci sono giornalisti veri, bravi solo a fare copia e incolla”, alcuni dei commenti più ricorrenti.

Ma la realtà dietro le quinte è molto più complessa di quanto possano immaginare i vari eroici commentatori e spesso anche chi certe cose dovrebbe saperle bene, che però critica.

L’idea che un buon giornalista debba sempre e comunque svelare fatti e retroscena magari l’identità di ogni persona coinvolta, è un’idea spesso ingannevole e, in molti casi, non corretta.

Le decisioni su cosa pubblicare e cosa omettere non sono prese per mancanza di coraggio, ma delle volte per un puro e profondo senso di responsabilità.

La protezione delle “vittime” è prima di tutto è uno dei motivi più importanti per cui un giornalista sceglie di non fare il nome.

Rivelare l’identità di una o più persone che hanno subito un sopruso, un abuso o un trauma può procuragli danni maggiori, ritorsioni, minacce o a ulteriori problemi.

L’etica giornalistica impone di proteggere le fonti, specialmente se vulnerabili, questo qualcuno dovrebbe saperlo bene, e garantire nello stesso tempo la loro sicurezza e privacy, specialmente quando si tratta di casi di minori, violenza, sfruttamento o criminalità.

La paura di esporsi e la reticenza delle fonti è spesso la vera e più grande sfida per un giornalista.

Il difficile non è trovare storie da raccontare, quelle si trovano, ma la difficoltà sta nel trovare persone disposte a raccontarle con dovizia di particolari.

Molti dei fatti che meritano di essere raccontati, dai disagi negli ospedali alle condizioni di lavoro disumane fino allo sfruttamento, al non ricevere stipendi o riceverli “ridotti”, rimangono nell’ombra non perché i giornalisti non vogliano parlarne o non hanno il coraggio di farlo, ma perché i diretti interessati hanno paura di esporsi e raccontare, pur sapendo del segreto che i giornalisti hanno nel preservare e non svelare la fonte.

Un lavoratore che subisce sfruttamento, un paziente che ha subito un’ingiustizia, o chiunque sia testimone di un abuso, spesso si tira indietro all’idea di poter essere identificato.

Chi prova a scavare, trova spesso un muro, che altro non è la paura di perdere il lavoro, di subire ritorsioni etc..

Di fronte a questa reticenza, il giornalista si trova di fronte a una scelta, non scrivo nulla nulla o scrivo in termini generali con l’intento comunque di evidenziare il problema.

La seconda via non è un compromesso al ribasso, ma è sempre un atto di denuncia mirato…magari lo facessero in tanti.

Raccontando una situazione senza fare nomi o senza entrare nei minimi dettagli, il giornalista, quello che almeno lo fa, non rinuncia a informare, ma lancia un messaggio, attenzione c’è un realtà che molti fanno finta di non conoscere e lo fa anche con la speranza di incoraggiare altri a farsi avanti, a prendere coraggio e a dare il proprio contributo a far venire fuori il problema collaborando con la propria testimonianza.   

L’obiettivo è comunque quello di aprire un dibattito, sensibilizzare l’opinione pubblica e portare alla luce una situazione che non metta in pericolo nessuno.

Quello di parlarne comunque e un coportamento che andrebbe apprezzato, meglio di chi parla di tutto per non parlare alla fine di nulla, accusando però e puntando il dito su altri accusandoli di non essere professionali ritenendosi al contrario i migliori sul campo, forse solo quello davanti casa loro.

Ed è qui che entra in gioco l’altra faccia della medaglia, quella dei “perfettini”, “dei primi della classe”, sui social e non solo, dei conoscitori di codici e regolamenti che usano, a piacimento, solo per accusare gli altri.

Ma prima di lanciare accuse e macigni, sarebbe utile che si guardassero allo specchio.

Quante volte questi stessi critici hanno denigrato, delegittimato o attaccato qualcuno, alcune volte anche senza mai fare nomi, offendendoli pure?

Ma loro si credono furbi e sanno bene come non esporsi, infatti non lo fanno quando serve, e quanto sia facile attaccare in modo generico, ma quando si tratta di affrontare la realtà di un’indagine giornalistica o di un semplice approfondimento critico, cosa che ripeto mai fanno mai, alzano la voce e chiedono agli altri quello che loro stessi non hanno mai fatto e mai faranno per svariati motivi.

Se siete così bravi a dare lezioni di coraggio, fate voi per primi i coraggiosi quando è il momento giusto, e non per difendere delle volte l’indifendibile, mettete anche voi il naso dove non vi è consetito metterlo, ma abbiate almeno la dignità di tacere quando altri provano a farlo.

Il giornalismo, quello vero, non si fa con un post, richiede tempo, ricerca, verifiche, profondo rispetto per le persone coinvolte e soprattutto collaborazione, quella vera, non fesserie varie.

A volte, il vero atto di coraggio di un giornalista non è quello di urlare un nome, che spesso nessuno vuol fargli, ma anche il semplice sussurrare una storia, proteggendo chi non ha voce e invitando a riflettere chi legge.

Che poi parliamoci chiaro fare giornalismo a livello locale ha anche parecchi limiti, le redazioni locali, almeno quelle a noi vicine, non hanno le spalle larghe o sono ben coperte come coloro che si possono permettere inchieste di un certo tipo, che comunque alla base delle loro inchieste hanno sempre delle fonti, quelle che mancano in una piccola realtà locale dove, bene o male ci si conosce tutti e il “pari mali” prevale sempre.

Sigfrido Ranucci durante la presentazione di un suo libro ha parlato delle difficolta del giornalismo in generale e di quello locale, sostenendo che già è una professione resa ancora più difficile dal quadro normativo, che sta andando in una direzione preoccupante: “Credo che sia un momento particolare per l’informazione. Alcune leggi già approvate, e altre in approvazione, stanno portando verso un vero e proprio oblio di Stato e verso leggi bavaglio. A pesare sono anche le norme che permettono, le liti temerarie, le cause civili intentate per intimidire e mettere a tecere i giornalisti”, cose che chi ci prova in prima persona sa benissimo.

Palando poi del giornalismo locale aggiunge “già riesce difficile a noi, che abbiamo un sistema forte e ben strutturato alle spalle, non oso immaginare lavorare nelle piccole realtà locali, ma anche il giornalismo locale ha una responsabilità sociale e va aiutato e sostenuto, tutti noi dovremmo rafforzare anche la stampa locale, perchè che se il corpo è malato il giornalismo locale rappresenta l’anticorpo periferico. È lei che può intercettare il male prima che distrugga il corpo”.

Con questo, è bene precisare, non ci si vuol paragonare al grande Ranucci e non si vuol dire neanche dire che ci si tira indietro perchè si ha paura o non si hanno le spalle ben coperte.

Come già detto in altre occasioni, la nostra redazione è disponibile a parlare di tutto e con tutti, disposti anche a beccarci qualche “virus”, e combatterlo cercando di essere l’anticorpo. ma da soli e senza il conforto degli “antibiotici”, le fonti, non si può pretendere che il malato guarisca da solo, tranne i “geni”, ma loro sono su un gradino più in alto o almeno credono di starci.

Fatevi avanti, noi ci proviamo ogni giorno a combattere i “virus” senza paura o remore…e voi ? Ad Maiora

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