La questione morale si erge come tema di ineluttabile pregnanza, la cui disamina dischiude le radici profonde della crisi etica che affligge le nostre istituzioni.
Il pensiero di Enrico Berlinguer, formulato oltre quattro decenni orsono, offre un’ermeneutica illuminante attraverso cui decodificare la progressiva degenerazione del tessuto politico-amministrativo del nostro Paese.
Come denunciava Berlinguer, “i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela, prive di idee, ideali, programmi, sentimenti e passione civile”.
Non più strumenti di partecipazione democratica, ma “federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss”, il cui fine precipuo consiste nella tutela non dell’interesse collettivo, ma degli interessi di piccoli clan di privilegiati.
Il monito di Berlinguer non si esauriva nella stigmatizzazione di episodi corruttivi circoscritti a tangenti e appalti pilotati, bensì evidenziava un degrado più profondo: la metamorfosi degenerativa della politica e l’occupazione sistematica delle istituzioni ad opera di soggetti privi di competenza, mossi esclusivamente da interessi personalistici e logiche clientelari.
Il suo ammonimento risuonava perentorio: allorquando la politica diviene autoreferenziale e il criterio selettivo non è più il merito ma l’appartenenza a una cerchia privilegiata, il vulnus trascende la mera dissipazione economica, traducendosi in una devastazione etica, culturale e sociale di portata incommensurabile.
La politica, nella sua accezione più nobile e trascendente, dovrebbe assurgere a fulcro della progettualità del Paese. nondimeno, da tempo immemore, essa si è trasfigurata in una rappresentazione grottesca, ove i protagonisti non incarnano più il ruolo di servitori dello Stato, bensì quello di predatori famelici, intenti alla spartizione delle spoglie di un Paese esangue.
La questione morale, lungi dall’essere mera astrazione teoretica, costituisce il paradigma stesso di un sistema contaminato dal particolarismo, dalla discrezionalità e dalla corruzione strutturale.
Attualmente, la realtà ha travalicato persino la sua profetica denuncia: il malaffare non rappresenta più una patologia che contamina le istituzioni, bensì l’ossatura stessa di un sistema che non conosce più confini tra lecito e illecito.
Nei sancta sanctorum del potere, si procede alla spartizione di incarichi come fossero bottino di guerra.
La logica interna è assimilabile a quella vigente nelle consorterie criminali, veri e propri cartelli che gestiscono i fondi pubblici alla stregua di un patrimonio personale.
L’Italia non è più una Res Publica, un bene comune da tutelare, ma un mercato in cui il denaro e l’influenza costituiscono le uniche valute riconosciute.
Le amministrazioni locali, lungi dal fungere da avamposti della legalità e del servizio ai cittadini, sono degenerati in feudi di clientele, ove si negoziano appalti, concessioni e finanziamenti con modalità più affini alla criminalità organizzata che alla democrazia.
Il clientelismo ha soppiantato il merito, il favore ha sostituito la regola, e la burocrazia —che dovrebbe garantire trasparenza— è diventata lo strumento perfettamente congegnato per occultare illeciti sotto una coltre di carte bollate e cavilli normativi.
Non si può comprendere appieno la gravità della situazione senza analizzarne la matrice più inquietante: la corruzione non è meramente un atto criminoso, bensì una prassi normalizzata, un sistema che si autoalimenta e si tutela con le armi della connivenza e dell’impunità.
Le inchieste giudiziarie documentano una fitta rete di intrecci tra politica, affari e criminalità organizzata, in cui le linee di demarcazione tra legalità e illegalità sfumano nell’ombra di una cultura radicata nell’abuso sistematico del potere.
Appare ormai inconfutabile come i mammasantissima condividano con questa classe dirigente infedele un elemento costitutivo: il disprezzo per la dignità umana, che si manifesta precipuamente nell’oppressione dei soggetti più vulnerabili.
L’illusione di una mera infiltrazione mafiosa nelle istituzioni quindi cede il passo ad una più inquietante verità: in talune circostanze, funzionari pubblici, politici infedeli e mammasantissima rappresentano una coincidenza soggettiva, un unicum che fonde potere legittimo e criminale in un’entità indistinguibile.
Emblematico è il caso della gestione dei fondi PNRR, che avrebbero dovuto rappresentare un’occasione storica per modernizzare il Paese.
E invece cosa si constata? Ritardi, inefficienza, incapacità di programmazione.
Mentre altri Paesi europei hanno già attuato progetti concreti per il rilancio dell’economia, l’Italia permane impantanata in pastoie burocratiche e in rimpalli di responsabilità nelle amministrazioni locali.
La ragione risiede nella nomina di soggetti privi di competenza tecnica nelle posizioni decisionali.
Le risorse, anziché essere impiegate per il rilancio dell’economia, vengono disperse in un ginepraio di inefficienza, sprechi e favoritismi.
L’osservazione empirica inconfutabile dimostra come, sovente, sussista una correlazione inversamente proporzionale tra competenza professionale e arroganza comportamentale dei funzionari pubblici infedeli.
Codesta circostanza, lungi dall’essere una mera constatazione sociologica, assurge a indice sintomatico di un sistema che premia l’appartenenza in luogo della competenza.
La pervasività di siffatto fenomeno si manifesta precipuamente nella gestione delle risorse pubbliche, ove la discrezionalità amministrativa trasmoda in arbitrio, violando i canoni di imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione.
Detta distorsione genera un’emorragia di capitale umano di proporzioni esiziali. I giovani talenti, confrontandosi con un sistema impermeabile al merito, sono costretti ad un esodo intellettuale che configura, de facto, una lesione del diritto allo sviluppo professionale.
Tale diaspora non rappresenta meramente una perdita economica, bensì una catastrofe sistemica che compromette le prospettive di sviluppo dell’intero Paese.
La politica corrotta e clientelare non è solo un problema di giustizia, ma un freno allo sviluppo economico e sociale.
Le ripercussioni sono devastanti: mentre i fondi pubblici vengono sperperati per mantenere in vita rendite di posizione, foraggiando clientele con finanziamenti per eventi folcloristici, sagre, consulenze inutili e corsi di formazione di dubbia utilità, le emergenze reali rimangono irrisolte, sacrificate sull’altare della convenienza politica.
La sanità pubblica versa in uno stato di collasso, con ospedali sovraffollati e carenza di personale, mentre i cittadini sono costretti a rivolgersi al privato per ottenere cure in tempi accettabili.
Il sistema scolastico soffre per la penuria di investimenti e le infrastrutture versano in condizioni disastrose, paralizzate da lungaggini amministrative e da una burocrazia che appare congegnata per impedire qualsiasi progresso.
Berlinguer parlava di una politica “che non è più in grado di rispondere alla volontà dei cittadini”; oggi possiamo affermare, senza timore di smentita, che la politica non è più al servizio del cittadino, ma esclusivamente di se stessa.
Nel contempo, chi governa si presenta come salvatore della patria, celando la propria inadeguatezza dietro proclami altisonanti, manipolazioni della realtà e campagne di comunicazione studiate a tavolino.
Dietro le promesse si cela solo la volontà di mantenere il controllo sulle risorse e sugli apparati di potere.
La degenerazione delle istituzioni ne è il riflesso più evidente: ogni decisione, ogni nomina, ogni appalto risponde non all’interesse pubblico, ma a un sistema di scambi e favoritismi consolidato.
Questo sistema non sopravvive solo grazie all’arroganza di chi comanda, ma anche grazie alla rassegnazione di chi subisce, infiltrandosi nei meccanismi del potere e avvelenando ogni aspetto della vita pubblica.
La dipendenza dai favori della politica non è un’aberrazione occasionale, ma un preciso strumento di controllo sociale.
Chi ottiene un lavoro, un finanziamento, un’autorizzazione – anche talvolta legittimamente – sa che non si tratta di un diritto garantito, bensì di una concessione subordinata all’obbedienza.
Il cittadino si trasforma in suddito, costretto a mendicare ciò che gli spetterebbe per legge, mentre chi aspira a un’opportunità teme di perderla se non si dimostra adeguatamente allineato.
Berlinguer aveva già colto la portata di questa tragedia: “Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni, ma gran parte di loro è sotto ricatto: hanno ricevuto vantaggi o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più”.
Il problema è che, di fronte a questo degrado, troppi cittadini si sentono rassegnati.
Eppure, senza un sussulto etico e una presa di coscienza collettiva, la questione morale continuerà a essere il nodo irrisolto del declino italiano.
In un ordinamento sano, l’accesso alle opportunità dovrebbe essere regolato dal merito e dalla necessità, non dall’appartenenza a reti di potere.
In Italia, invece, la selezione avviene attraverso logiche di fedeltà e connivenza.
Questo meccanismo non si esaurisce ai vertici della politica, ma si annida nei comuni, nelle regioni, nelle aziende pubbliche, negli enti locali: lì trova il terreno più fertile, lì diventa norma.
Nei piccoli centri, in particolare, il potere locale assume una dimensione pervasiva e totalizzante, rendendo la dipendenza dalle amministrazioni un vincolo inscindibile dalla quotidianità dei cittadini.
Le istituzioni qui operano in una perenne zona grigia, dove la legalità formale viene garantita dall’apparenza di regolarità, mentre la sostanza è compromessa da un sistema di relazioni opache e illecite.
Le procedure burocratiche, anziché garantire trasparenza, vengono piegate a logiche di rendita e privilegio.
Se lo Stato è malato, i comuni ne sono il primo focolaio d’infezione.
Quelli che dovrebbero essere i baluardi della democrazia locale sono stati trasformati in feudi personali, gestiti da sindaci e dirigenti come se fossero cosa loro.
Chi potrebbe rappresentare un’alternativa – giovani talenti, imprenditori, professionisti onesti – si trova costretto a emigrare o a rimanere ai margini, mentre il sistema premia mediocrità, corruzione e opportunismo.
Di fronte a questa realtà, il richiamo di Berlinguer sulla “questione morale” assume il valore di un monito ineludibile.
Egli ammoniva che la corruzione non è solo un problema giudiziario, ma una questione politica centrale, poiché mina la fiducia nelle istituzioni e svuota la democrazia dall’interno.
La rinascita delle istituzioni non può avvenire attraverso mere riforme normative, ma richiede un cambiamento culturale profondo, un nuovo modo di concepire la politica e l’amministrazione pubblica.
La lotta alla corruzione non può essere demandata esclusivamente alla magistratura, ma deve divenire un impegno collettivo, sostenuto da strumenti di controllo indipendenti, da una cittadinanza vigile e consapevole, da un giornalismo libero e coraggioso.
Come affermava Berlinguer, “la questione morale esiste da tempo, ma oggi essa è diventata la questione politica centrale”.
La corruzione non è più un’eccezione, ma un paradigma sistemico che mina le fondamenta dello Stato di diritto.
Ciò che un tempo si consumava nell’ombra, oggi si manifesta con impudente normalità, come se il malaffare fosse parte integrante del funzionamento pubblico.
Abbiamo un dovere inderogabile: smantellare questo sistema pezzo dopo pezzo.
“Il privilegio va combattuto ovunque si annidi”, affermava Berlinguer.
Ciò significa esigere trasparenza nei bandi pubblici, nelle nomine, nell’assegnazione dei fondi.
Significa rifiutare il ricatto del favore politico e restituire valore alla competenza, al merito, alla giustizia sociale.
Significa opporsi al malaffare senza esitazioni, poiché la rassegnazione è il miglior alleato della corruzione.
Significa ridare voce a chi è stato ridotto al silenzio, a chi non si rassegna all’idea che l’Italia sia destinata a essere preda dei soliti noti.
In tale contesto, permangono soggetti che, ancorati ai principi costituzionali, rifiutano categoricamente di cedere a compromessi con il sistema, resistendo altresì alle intimidazioni di coloro che, in nome del “quieto vivere”, suggeriscono di non denunciare i vassalli del potere costituito.
Codesti baluardi di legalità rappresentano l’ultima difesa contro la degenerazione sistemica dell’ordinamento.
Se rimaniamo in silenzio, se abbassiamo la testa, se accettiamo questo sistema come ineluttabile, allora saremo complici.
La corruzione non è solo un gioco politico: è un crimine contro il popolo.
E la storia non potrà che chiedere conto di tutto questo.
Questa non è solo una crisi politica o economica, è una crisi morale, è un tradimento della democrazia.
Non basta denunciare il malaffare, occorre ribaltare il modo stesso di intendere la politica.
Bisogna riportare al centro della vita pubblica la competenza, il merito, la trasparenza.
Oggi, chi non appartiene ai circuiti di potere viene escluso, indipendentemente dalle proprie capacità.
Il risultato è un Paese paralizzato, in cui il talento viene soffocato e la mediocrità elevata a sistema.
Le conseguenze non ricadono solo sulle generazioni presenti, ma su quelle future, private di opportunità e speranza.
Oggi, 21 marzo, Giornata Nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, il messaggio del Presidente Mattarella risuona come monito imprescindibile: “..superare rassegnazione e indifferenza, alleate dei violenti e dei sopraffattori. La lotta contro le consorterie criminali che generano violenza e oppressione, contro le zone grigie di complicità che ne favoriscono gli affari illeciti, rappresenta un imperativo categorico per la sopravvivenza stessa dell’ordinamento democratico.”
La metamorfosi necessaria richiede una rivoluzione paradigmatica che restituisca alle istituzioni la loro funzione originaria di garanti dell’equità sociale.
L’implementazione di meccanismi di accountability e trasparenza si configura quale presupposto indefettibile per il ripristino della fiducia nell’ordinamento.
“Salus rei publicae suprema lex esto” – il bene pubblico sia la legge suprema.
Solo attraverso una profonda rigenerazione etica e culturale sarà possibile rifondare un sistema istituzionale che, liberato dal giogo clientelare, torni a essere strumento di giustizia sostanziale e progresso sociale.
