Il libro sull’“Enigate” non ha diffamato l’Eni Il giudice: inchiesta corretta e documentata
Nell ’atto di citazione c’era una cifra da far tremare i polsi. Eni chiedeva in sede civile al collega Claudio Gatti e a Seif, l’editore di questo giornale e del libro Enigate, la somma monstre di 5 milioni di euro e il ritiro dal commercio di tutte le copie del volume ritenuto diffamatorio
dal colosso petrolifero.
Ma che diffamatorio non era affatto, come ha stabilito la sentenza del giudice di Roma Francesca
Giacomini, con motivazioni che lodano la correttezza e la professionalità di Gatti.
È proprio il giudice –recependo le argomentazioni dei legali del Fatto, Caterina Malavenda e Valentino Sirianni – a sottolineare, infatti, che l’autore ha realizzato un’inchiesta giornalistica ben documentata e approfondita, in certi passaggi persino anticipando le conclusioni dei pm milanesi.
La dottoressa Giacomini riporta in sentenza che “Gatti si era già occupato dell’affare Eni in Nigeria nel 2012, con un articolo apparso sul Sole 24 Ore, ancor prima che intervenisse la
Procura di Milano. Pertanto, il libro risulta essere il frutto di una risalente e approfondita conoscenza della vicenda, basata sulla raccolta autonoma e diretta della notizia, attraverso indagini e inchieste svolte in prima persona, poi compiutamente elaborate ”, su quella che, all’epoca della pubblicazione del libro (nel 2018), fu definita proprio dai pm “la più grande tangente di sempre”.
L’ultimo virgolettato si riferisce alla vicenda con cui Eni acquisì dal governo nigeriano i diritti
di esplorazione del blocco 245: e all’accusa dei magistrati inquirenti di aver corrotto l’ex
ministro del petrolio nigeriano con un miliardo di dollari bonificati su conti off shore “legati ad
alti papaveri corrotti della classe politica nigeriana per l’acquisizione della licenza esplorativa
del giacimento Opl 245 a largo delle coste del Paese africano”, come si legge in una pagina
del libro, richiamata da Eni; e poco importa, aggiunge il Giudice, se poi il processo penale
si è concluso con delle assoluzioni degli imputati, intervenute anni dopo.
Nel rigettare la domanda scrive poi che “dall’esame dei documenti prodotti (…) emerge un
quadro di sostanziale corrispondenza tra i fatti narrati dall’autore e le notizie diffuse, nei periodi
precedenti e in concomitanza all’uscita del libro”, definito “opera nella quale, in modo puntuale, l’autore riporta le fonti da cui sono state tratte le affermazioni e le circostanze riportate,
correttamente interpretando alcune di esse in forma dubitativa, laddove le fonti siano contraddittorie o le versioni degli intervistati siano mutate nel tempo”. È il passaggio in cui il
giudice di Roma ricorda che fu proprio Gatti il primo a porre dubbi sull’attendibilità di Vincenzo
Armanna, che crollerà nel corso del processo, celebrato dopo la pubblicazione del volume.
Quindi Eni ha perso, anche se non è stata riconosciuta la temerarietà della lite: dovrà però rifondere le spese per gli avvocati del fatt0, quantificate in più di 22.000 euro.
