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Riceviamo e pubblichiamo

“Le Menti Raffinatissime: Quelle delle Istituzioni Deviate”. Di Marinella Andaloro

Last updated: 17/06/2025 6:14
By Redazione 457 Views 12 Min Read
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Le Menti Raffinatissime: Quelle delle Istituzioni Deviate

Giovanni Falcone aveva colto l’essenza del fenomeno quando parlava delle “menti raffinatissime” che muovevano i fili della criminalità organizzata.
Ma forse nemmeno lui, con la sua lucidità profetica, poteva immaginare quanto quella intuizione si sarebbe manifestata in tutta la sua gravità: le menti raffinatissime non agiscono più dall’esterno delle istituzioni, ma dall’interno delle stesse.
Sono divenute lo Stato, quella macchina che dovrebbe combattere l’illegalità, e che, invece, si fa strumento per perpetrarla.
La mafia degli ordigni e dei riti di iniziazione è diventata la bassa manovalanza di un sistema criminale molto più sofisticato e letale: quello delle istituzioni deviate.

L’Italia del 2024, con un punteggio di 54 su 100 nel Corruption Perceptions Index di Transparency International — che la colloca al 52º posto su 180 paesi — certifica che quella che un tempo era corruzione si è oramai trasfigurata in un potere criminale sistemico.
Fenomeno che nemmeno Giovanni Falcone, con la sua perspicacia visionaria, aveva potuto compiutamente prefigurare.

Falcone aveva intuito come quelle “menti raffinatissime” orchestravano le trame della criminalità organizzata.
Ma dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio quella mafia ha compiuto un’ulteriore metamorfosi.

Le stragi del 92 hanno segnato una linea di demarcazione nella storia della criminalità organizzata italiana. Non segnarono l’epilogo di un’era, ma la genesi di quella successiva: quella che ha visto la criminalità organizzata trasmutarsi nello Stato.

Dopo il 1992, mentre l’Italia piangeva i suoi martiri, la mafia assimilava la lezione più importante della sua esistenza: la violenza ostentata è controproducente, quella istituzionale è inespugnabile.

Le bombe che uccisero Falcone e Borsellino costituirono l’atto finale della mafia arcaica, quella che sfidava platealmente lo Stato.
Da quelle ceneri è nata una mafia ben più pericolosa: quella che si fa istituzione.

La mafia ha appreso il paradigma fondamentale che nemmeno le menti più brillanti avevano completamente anticipato: per dominare non occorre combattere lo Stato, ma diventare lo Stato.

È quella che ha reso illegale la legalità, che si nasconde dietro l’ombra delle procedure formali per perseguire propri interessi privati.
Hanno capito che è più redditizio governare mafiosamente che fare il mafioso tradizionale.

È una criminalità che si cela sotto l’egida degli emblemi istituzionali e opera attraverso i canali ufficiali del potere, protetta dall’immunità procedurale e ammantata di legalità formale.

È a partire dai comuni, dai centri minori, che questa criminalità istituzionale ha costruito le sue roccaforti.
È in quelle che potremmo chiamare mafiopoli che si manifesta il suo potere pervasivo.

Sono questi i laboratori dove la neo-criminalità organizzata ha forgiato le sue strategie: non infiltrarsi, ma divenire essa stessa l’istituzione.

È in questi contesti che si realizzano le nomine clientelari, che si manipolano le gare d’appalto, che si predeterminano le procedure per favorire amici, parenti, conniventi.
È in questi luoghi che si compie quella che potremmo a pieno titolo chiamare la privatizzazione del potere pubblico.

Il pericolo più grande risiede nell’inganno perpetrato da coloro che, nonostante si proclamino garanti della legalità, agiscono esclusivamente in proprio favore e dei loro adepti, monopolizzando incarichi, manipolando il sistema a proprio vantaggio e a discapito della giustizia.

Il sindaco di una mafiopoli di poche migliaia di anime che manipola un bando detiene un potere più pervasivo di un boss tradizionale.
È investito della legittimazione democratica, dal voto popolare, dal sigillo delle istituzioni, dal conferimento di fondi pubblici, dalla facoltà di nomina, dalla copertura formale delle procedure.
Soprattutto, possiede quella rispettabilità sociale che nessun mafioso può acquistare.

È quella che fa sì che il crimine si travesta da legalità.

È in questi contesti che si compie quella che potremmo chiamare la metamorfosi finale delle organizzazioni mafiose: dal crimine clandestino all’amministrazione del potere.

Il crimine non ha più bisogno di nascondersi, perché si fa legge.

Delibere comunali che si transformano in mandati di estorsione legalizzati.
Gare d’appalto confezionate per le imprese conniventi.
Concorsi pubblici che premiano i predestinati.
Lavori in somma urgenza da aggiudicare ai sodali.
Il tutto, ovviamente, a partire da procedure apparentemente ineccepibili.

Queste mafiopoli sono assurte a centrali operative del nuovo potere criminale.
È qui che si forgiano le classi dirigenti corrotte, che si collaudano le strategie per saccheggiare le risorse comuni, che si fa pratica per poi magari estendere il modello a ogni snodo del potere.

È in questi contesti che i politici, i dirigenti, i presidenti di commissione, i vertici degli uffici si comportano come veri e propri mammasantissima.
Non come pedine di un’organizzazione esterna, ma come l’organizzazione in sé.
Non sono più wannabe.
Sono la mafia in senso pieno.

Le classi dirigenti di queste mafiopoli si sono appropriate di una prerogativa che i boss tradizionali non osavano nemmeno sognare: quella di modificare le regole del gioco a proprio vantaggio, senza che nessuno possa fermarle.

Il condizionamento delle istituzioni da parte di questi individui è un fenomeno diffuso e allarmante. Sfruttando il loro potere, minacciano e corrompono chiunque sia sul loro percorso, eliminano ogni forma di dissenso, ogni resistenza, ogni voce critica, manipolando le decisioni e creando un clima di omertà e complicità. Pur di raggiungere i propri biechi obiettivi.

Un capomafia può corrompere, intimidire, annientare esistenze. Un sindaco deviato può fare tutto questo e chiamarlo “atto amministrativo”; l’assessore può distribuire favori; il dirigente può predisporre procedure illegittime; il presidente può blindare le gare per i propri protetti.

È una macchina che si muove come un potere autocratico, che si fa sovrano senza alcun contrappeso.

A supporto di questa rete di corruzione vi sono ingenti risorse economiche -ovviamente di provenienza pubblica- che anziché servire la comunità foraggiano agende personali; finanziano avvocati dalla dubbia integrità; arruolano professionisti senza scrupoli, disposti a ogni compromesso pur di mantenere il loro potere.

Questa nuova stirpe di criminali istituzionali rappresenta l’evoluzione darwiniana della criminalità di stampo mafioso.
Ha conservato tutti i vizi della mafia tradizionale – cupidigia, violenza, controllo territoriale – eliminandone i limiti: clandestinità e illegalità formale. Gli strumenti coercitivi si sono affinati: l’arma da fuoco, il racket, le intimidazioni sono state rimpiazzate dall’ordinanza comunale.

È una nuova mafia protetta dall’immunità istituzionale e dalla compiacenza di un sistema che ha smesso di distinguere tra lecito e illecito.

Di fronte a questa infiltrazione subdola, i vili, gli ignavi e i pusillanimi sono i più vulnerabili sia alle minacce che alle lusinghe. La corruzione, dal livello più basso al più alto, mina la fiducia nell’integrità delle istituzioni tutte e mette sempre più a rischio la stabilità democratica.

I veri reggenti di questo sistema non sono più i capi clan, ma i sindaci, gli assessori, i presidenti consiliari, i dirigenti degli uffici tecnici delle mafiopoli. Sono loro che decretano chi deve vivere e chi deve perire civilmente, chi può prosperare e chi deve soccombere.

I clan tradizionali sono divenuti la bassa manovalanza di questo sistema. Eseguono quanto l’amministrazione ordina, senza più dettare le regole. Forniscono i servizi che i dirigenti delle mafiopoli non erogano direttamente.
Ma sono prestazioni su commissione, non più iniziative autonome.
È il sindaco che decide chi deve essere intimidito, è l’assessore che designa quale imprenditore deve essere “persuaso”, è il dirigente comunale che segnala quale giornalista sta investigando oltre misura.

Questo sovvertimento dei ruoli ha generato una gerarchia inedita nella storia della criminalità organizzata. Il boss risponde al sindaco, non viceversa.
Il clan esegue gli ordini dell’amministrazione di mafiopoli, non li detta.
La famiglia mafiosa è divenuta l’ufficio di segreteria del comune.
I picciotti non sono più militi di un’organizzazione criminale, sono impiegati non ufficiali della pubblica amministrazione.

La criminalità tradizionale, con i suoi codici ancestrali e i suoi rituali tribali, appare primitiva al cospetto della sofisticazione tecnocratica dei nuovi boss istituzionali.
Un capo che elimina per questioni d’onore o controllo territoriale segue ancora logiche intellegibili, per quanto aberranti.
Un amministratore pubblico che devasta l’avvenire di un’intera comunità attraverso una manovra di bilancio opera con la precisione chirurgica dell’ingegneria sociale.
È una forma di violenza più raffinata e più devastante, poiché non si limita a colpire singoli individui ma plasma destini collettivi.

Ogni pratica che languisce negli uffici di mafiopoli, ogni procedura che si arena nei meandri burocratici, ogni servizio che viene negato ai cittadini non è frutto di inefficienza, ma di criminalità istituzionalizzata orchestrata da questi mammasantissima non più wannabe.

L’esito di questo processo è la democrazia sequestrata.
Non più governi eletti dai cittadini, ma organizzazioni criminali legittimate dal suffragio.

Non più rappresentanti del popolo, ma emissari di (personalissimi) interessi criminali.
Non più istituzioni al servizio della collettività, ma mafiopoli travestite da enti pubblici.

La lotta contro la criminalità organizzata, sebbene abbia portato alla cattura di boss e capibastone, non ha per niente debellato il sistema.
La mafia si è evoluta, è una minaccia poliedrica che adotta strategie più sofisticate e invisibili.
Da tempo ormai non è più riconoscibile dalla tradizionale immagine della “coppola”, ma si nasconde dietro colletti bianchi, dalla (molto) apparente rispettabilità, corrompendo ogni principio etico, lasciando le comunità alla mercé di coloro che sfruttano il potere per il proprio tornaconto.

La vera mafia del ventunesimo secolo non necessita più di sparare. Sa votare, deliberare, legiferare.
Sa che è assai più efficace uccidere la democrazia ab intra che combatterla ab extra.
Sa che la strategia vincente non consiste nell’eliminare ogni traccia del proprio operato, ma nel trasmutare ogni azione criminale in un atto formalmente legittimo.

Falcone aveva colto nel segno: dietro ogni fenomeno mafioso si celano sempre le menti raffinatissime.
Ma quelle menti oggi non dirigono la mafia.
Quelle menti sono la mafia.

E i domini di questa nuova criminalità istituzionale portano la fascia tricolore e governano le mafiopoli d’Italia.

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