“La lotta alla mafia doveva essere un movimento culturale e morale”, ammoniva Paolo Borsellino.
Ma lui è stato ucciso. La mafia no. Ha cambiato pelle, è diventata più astuta, insinuante, pericolosa. Si è istituzionalizzata.
Trentatré anni scanditi da rituali commemorativi e accordi sottobanco. Una generazione è cresciuta sotto l’ombra lunga del boato di via D’Amelio, circondata da istituzioni che predicano legalità mentre contrattano favori e coltivano clientele.
Oggi la criminalità organizzata non si mimetizza: occupa posti d’onore nei consigli comunali. La coppola ha ceduto il passo alla fascia tricolore. Il pizzo prende il nome di appalto pubblico.
Tutto questo accade sotto gli occhi, troppo spesso complici, di un paese intorpidito. Avviene nei piccoli comuni, nei territori dimenticati, dove la legalità è diventata retorica, linguaggio sterile, facciata dietro cui si consuma l’abuso. Lo Stato abdica, lasciando spazio a un sistema che prospera nel silenzio. Feudi locali dominati da piccoli satrapi, scelti per docile disponibilità a manipolare procedure, a gonfiare fatture e restituire in nero a referenti occulti. Nessuno disturba.
Il meccanismo è discreto, replicabile, perfettamente oliato da consuetudini opache. Chi dovrebbe vigilare si gira dall’altra parte.
La mafia dell’antimafia è oggi, come allora, la più perversa delle forme criminali. Partecipa ai convegni sulla legalità, strumentalizza i nomi dei martiri per auto-legittimarsi, elargisce patenti morali a chi ne condivide la connivenza. Camuffata da istituzione, prospera nell’ambiguità, contando sull’inerzia collettiva e sul conformismo emotivo di chi crede basti una targa e una commemorazione per lavarsi la coscienza. Si proclama irreprensibile, ma la sua lingua madre è l’ipocrisia.
È l’evoluzione mimetica del fenomeno: usa il lessico della giustizia per mascherare ingiustizie, brandisce la memoria dei caduti per legittimare carriere e affari, trasforma eventi sulla legalità in passerelle per la spartizione di privilegi.
È la mafia che non agisce più ai margini dello Stato: è lo Stato.
In certi territori, non siamo più di fronte a una semplice prossimità. La fusione è compiuta. Mafia e politica coincidono.
E questa mafia di seconda generazione, istituzionalizzata, è persino più pericolosa di quella armata. Perché si spaccia per democrazia. Si traveste da etica pubblica.
Ogni anno, il 19 luglio, si ripete la liturgia dell’ipocrisia.
Chi alimenta il sistema cita Borsellino con parole solenni, invocano valori, mentre nei corridoi del palazzo spartiscono incarichi, alimentano clientele, perpetuano opacità. Non è connivenza criminale. È appartenenza organica. In questi casi, il contrario di mafia non è antimafia. È indipendenza intellettuale.
È questo il tabù ultimo, la minaccia più temuta dal sistema.
Ed è proprio ciò che manca. L’indipendenza di chi non ha padroni. Di chi non baratta il proprio pensiero per una poltrona. Di chi non confonde la legge con il favore.
Il sistema seduce, non minaccia. E lo fa con raccomandazioni, consulenze, promozioni.
Non elimina più fisicamente; annienta moralmente. Borsellino lo aveva intuito con chiarezza chirurgica: il pericolo non era solo nei proiettili, ma nella contaminazione delle coscienze.
“Quel politico era vicino alla mafia… però non è stato condannato. Quindi è onesto? E no!”.
Già nel 1989 Borsellino denunciava il corto circuito tra legalità formale e integrità morale. Perché la responsabilità pubblica non si misura in sentenze, ma in comportamenti. Ma si è scelto il compromesso.
Troppi intellettuali hanno taciuto, sedotti da titoli e compensi; troppi cittadini si sono rassegnati, anestetizzati da un sistema che premia la sottomissione e punisce l’autonomia.
Perché la verità non si controlla. Non si neutralizza. Non si elegge.
Oggi questo equivoco è diventato il paradigma dominante, mentre la responsabilità politica si dilegua dietro cavilli, prescrizioni ad hoc e paraventi procedurali.
Chi si rifugia dietro l’alibi del “non è stato condannato” legittima la degenerazione democratica.
La legalità non è un tecnicismo. È un dovere etico, politico, civile.
Parlare di mafia oggi è ancora più complesso di trentatré anni fa. Perché la mafia non è più cupola nell’ombra: è rete visibile, sistemica, istituzionalizzata. È la gestione distorta della cosa pubblica. È disinteresse, rassegnazione, indifferenza dei più.
Siamo passati da “mafia e politica” a “mafia è politica”.
Una sovrapposizione perfetta, che ha disorientato ogni criterio di merito, sostituito il diritto con il favore, la trasparenza con la fedeltà.
Non servono più pizzini. Oggi basta un bando manipolato, una nomina compiacente, una consulenza ad personam. La mafia siede in consiglio comunale, parla sui social di etica pubblica.
Questa è la mafia che benedice iniziative “per la legalità”, con tanto di patrocinio istituzionale. Tutto avviene apertamente, timbrato e firmato, apparentemente legale. Ma non legittimo. È il crimine perfetto.
La chiamano antimafia. È, spesso, solo un business. Qui sta il tradimento più infame.
Il silenzio che lo accompagna è l’arma più micidiale: non il piombo, ma l’apatia. Non l’intimidazione, ma l’omertà istituzionalizzata. L’accettazione della mediocrità. Chi tace non è neutrale: è complice.
Fuori la mafia dell’antimafia. Fuori i professionisti dell’omertà travestita da impegno civile. Fuori chi utilizza il nome di Borsellino come passe-partout per accedere a stanze che lui avrebbe smantellato. Borsellino non avrebbe mai approvato modelli amministrativi che soffocano il dissenso.
Quel suo “no” a quell’equivoco risuona oggi come un atto d’accusa contro un sistema che ha trasformato la memoria in retorica e l’etica in scenografia.Lo aveva detto: il nemico non era solo nella carica dell’esplosivo, ma soprattutto nella toga compromessa, nella fascia tricolore logora, nelle menzogne della retorica dell’antimafia d’apparato. Nei gangli dello Stato, nei piccoli comuni la mutazione è più evidente.
Sindaci-boss dispensano appalti come elemosine familiari. Funzionari ubbidienti, tecnici servili, docili al compromesso. Fondi neri generati sotto gli occhi di chi dovrebbe intervenire. Eppure tace.
Oggi, ciò che era mera contiguità è diventato simbiosi. Boss e politici non si distinguono più. I protagonisti coincidono: gli interessi degli apparati deviati e quelli della mafia si sovrapponevano perché a coincidere erano le persone.
Le determine sostituiscono i pizzini. Le delibere sono i nuovi ordini di scuderia.
Non serve il linguaggio cifrato criminale quando c’è quello burocratico. Qui la burocrazia è diventata codice mafioso.
La nuova “punciuta” è l’accordo occulto che lega tutti in un nodo di ricatti e complicità.Questa è la mafiosità dell’antimafia.
È questa la degenerazione che avrebbe fatto inorridire Paolo Borsellino: l’uso sistematico della sua memoria per distribuire potere, mascherare interessi, speculare sulla disperazione dei territori, delle comunità più vulnerabili, mentre costruisce carriere politiche sulla legalità da vetrina, trasformata in paravento per affari loschi. Borsellino non è morto per essere commemorato dai suoi traditori.
È morto per smascherarli. Non serve ricordare se non si ha il coraggio di scegliere.
E oggi la scelta è netta: o complicità o responsabilità.
I valori di Paolo Borsellino non si commemorano solo il 19 luglio. Si praticano ogni giorno. Nelle scelte, nel dissenso, nell’intransigenza morale.
Le istituzioni che allora apparivano impotenti, si sono rivelate -da allora- potentissime nel mascariamento, nella gestione dell’oblio.
La sua memoria non ha bisogno di cerimonie, ma di resistenza civile, di indignazione vera, di indipendenza intellettuale, di coraggio di dire no alla mafia travestita da antimafia, no all’ipocrisia istituzionale, no al silenzio complice. Perché la mafia ha cambiato forma, non natura. È quella zona grigia, di chi si protegge con gli stessi strumenti dello Stato, dei colletti bianchi, della criminalità di chi agisce sotto mentite spoglie.
Riconoscerla, nominarla, contrastarla: questo è l’unico tributo degno a chi ha perso la vita per smascherarla.
Oggi più che mai, serve memoria responsabile. Non si può continuare a semplificare, né attribuire responsabilità a un singolo magistrato, un singolo funzionario. Non si può dimenticare il disegno sistemico che Falcone e Borsellino avevano svelato: la convergenza criminale tra Cosa Nostra, borghesia affarista, politica corrotta e apparati infedeli.Falcone e Borsellino non furono “incompresi”. Furono isolati. Ostacolati. Delegittimati. Sabotati. Poi uccisi.
Ora tutti li celebrano. Allora li lasciarono soli.
Non basta urlare “mafia è politica”. Bisogna avere il coraggio di dire che quel sistema -mafioso, borghese, istituzionale- è ancora vivo. È ancora qui. Solo più raffinato. Più tollerato. Più applaudito.
In memoria di Paolo Borsellino, assassinato il 19 luglio 1992. Ma tradito ogni giorno dallo Stato che non ha voluto, né saputo, raccoglierne il testimone.

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