La Sicilia, terra di contrasti e di talenti straordinari, sembra spesso condannata a veder brillare i propri figli lontano da casa. Questa dinamica ricorrente trova una delle sue rappresentazioni più emblematiche nella parabola di Salvatore Schillaci, noto ai più come Totò, la cui storia incarna le speranze e le delusioni di un’intera regione.
Nell’estate del 1990, in un’epoca pre-internet dove la fama globale era un concetto ben diverso da oggi, Schillaci raggiunse un livello di notorietà internazionale che supera di gran lunga quella degli influencer contemporanei.
Dalle borgate di Palermo la sua “voglia di vincere” emerse con prepotente evidenza nell’arena mondiale, divenendo un’icona universale.
Il suo nome riecheggiava dagli stadi italiani fino ai Boulevards di Parigi, nelle strade affollate di New York, da Tokyo a Rio de Janeiro, incarnando un fenomeno mediatico di portata mondiale che oggi, nell’era dei social media, appare quasi inimmaginabile.
Totò Schillaci, grazie alle sue incredibili prestazioni ai Mondiali, divenne un’icona internazionale anche in contesti inaspettati come quello della musica giamaicana. L’espressione “essere uno Schillaci” acquisì un significato che andava oltre il calcio, diventando un modo di dire per indicare qualcuno particolarmente abile, lo slang per definire “skilled”. Ciò dimostra quanto l’impatto di Schillaci sia stato globale.
Mentre l’Italia intera si lasciava travolgere dall’euforia di quelle notti magiche durante i Mondiali di calcio, questo giovane palermitano si accingeva a varcare la soglia dell’Olimpo calcistico, ignaro di star per incarnare non solo un sogno personale, ma le aspirazioni di un’intera regione. La Sicilia, terra di mille contraddizioni, culla di bellezza e teatro di epiche narrazioni, vedeva in Schillaci la quintessenza delle proprie potenzialità inespresse, l’avatar di un riscatto tanto agognato quanto sfuggente.
In un’epoca in cui il fantasma della criminalità organizzata proiettava la sua ombra sinistra sull’isola, ogni gesto atletico di Schillaci assumeva i contorni di un atto di redenzione collettiva. Ogni rete segnata era un colpo inferto allo stereotipo, ai pregiudizi, ogni prodezza sul campo un mattone nella costruzione di una nuova narrativa per la Sicilia.
Per un fugace, glorioso momento, il termine “siciliano” tornava ad essere un vanto e ad evocare concetti di talento, passione e dedizione, scrollandosi di dosso il fardello secolare di associazioni meno nobili.
Eppure, la gloria di Schillaci, fulgida e repentina, avrebbe lasciato dietro di sé l’eco di un talento sacrificato sull’altare dell’indifferenza e dell’immobilismo.
La parabola di Totò illumina, con spietata lucidità, le contraddizioni di una terra tanto fertile di ingegni quanto sterile nel coltivarli.
Come affermava Peppino Impastato nel film “I cento passi”: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”. Questa riflessione potrebbe essere estesa alla valorizzazione del talento: se la Sicilia imparasse a riconoscere e coltivare il genio dei suoi figli, fornirebbe loro un motivo per restare, per combattere, per cambiare le cose dall’interno, per mutare il corso della storia.
La gestione del “fenomeno Schillaci” mette a nudo le carenze della classe dirigente siciliana: presuntuosa nel suo rifiuto di riconoscere il valore di un’icona globale nata sul proprio suolo, avara nell’investire su un’opportunità di visibilità senza precedenti, e soprattutto miope, incapace di scorgere le potenzialità a lungo termine di un simile fenomeno.
Ma la parabola di Schillaci non è che la punta dell’iceberg del fenomeno Nemo propheta in patria che trascende lo sport. In ogni campo, dalla letteratura alla scienza, dall’arte alla tecnologia, la Sicilia sembra condannata a generare geni destinati a brillare altrove. Questa miopia si traduce in un esodo inarrestabile di menti brillanti, un’emorragia di talenti che la Sicilia sembra accettare con stoica rassegnazione, cedendo il genio dei propri figli ad altre terre più pronte a riconoscerne il valore.
La Sicilia si trova oggi di fronte a un bivio: continuare a essere una “fabbrica di talenti per l’esportazione” o trasformarsi in una fucina di talenti, in un laboratorio di innovazione e crescita.
La sfida è ardua, ma non impossibile. Richiede un cambio di paradigma, una rivoluzione culturale che parta dalle istituzioni e permei ogni strato della società.
È forse giunto il momento per la Sicilia di aprirsi a nuove prospettive e di accogliere finalmente i suoi figli più talentuosi non come esuli di ritorno, ma come artefici di un rinascimento lungamente atteso.