Non servono più le bombe. Né i kalashnikov.
La mafia delle stragi è finita. Quella nuova non spara: firma.
Non chiede pizzo: Impone silenzio. Pretende non si disturbi il sistema. Non minaccia: ti isola.
Dimenticate coppole, lupare e latitanze nei bunker. Benvenuti nell’era della criminalità in doppiopetto. Anzi, a volte nemmeno quello.
Non fa rumore. Niente sangue, solo inchiostro. L’intimidazione si fa raffinata. Parla con i codici della burocrazia.
La violenza esplicita, ormai controproducente, ha ceduto il passo a una coercizione sottile.
La violenza non scompare, viene sublimata in forme socialmente accettabili di prevaricazione.
I nuovi boss? Affabili, impeccabili, insospettabili. Stringono mani, tagliano nastri, sorridono dai palchi. Siedono nei consigli d’amministrazione. Occupano poltrone.
Poi gestiscono appalti, spartiscono potere, alimentano clientele. Trasversalmente, Sistematicamente. Scientificamente. Il tutto, parlando di legalità mentre la calpestano con metodo.
È il dominio dell’apparenza. Rassicurante fuori, letale dentro.
Un sistema invisibile. Legale nell’apparenza. Criminale nella sostanza.
La mafia di ieri terrorizzava. Quella di oggi genera consenso.
La loro arma? L’indifferenza collettiva. La rassegnazione generale. La normalizzazione.
Benvenuti a Mafiopoli, dove la mafia che conoscevate non esiste più.
È una mafia legalizzata. Invisibile. Pulita in apparenza, corrotta nella sostanza.
Non cercatela nei vicoli bui. Trovatela negli uffici ben illuminati. Non impugna armi. Maneggia timbri. Non ordina omicidi. Dispone del destino altrui con una firma.
Il silenzio è la nuova omertà. La burocrazia, il nuovo sicario. L’indifferenza, la nuova arma del delitto perfetto.
E tutto sembra normale. È questo il vero orrore.
La sua forma più perversa? La mafia dell’antimafia.
Predatori travestiti da salvatori. Sciacalli che banchettano sulla memoria degli eroi. Parassiti che proclamano giustizia replicando le logiche mafiose.
È il trionfo della perversione semantica: Chi dovrebbe difendere la legge, la usa per opprimere. Chi dovrebbe proteggere, manipola. Chi si proclama paladino, perpetua il sistema.
A Mafiopoli non si muore di lupara. Si soccombe per asfissia sociale. Chi si ribella viene isolato. Chi denuncia viene screditato. Chi resiste, è pericoloso. L’onestà diventa una provocazione. La verità, un atto sovversivo.
Oggi, resistere a mafiopoli non significa più sfidare armi e tritolo. Ma decostruire una narrazione tossica. Significa non adattarsi. Significa pretendere giustizia dove regna ambiguità. Non scendere a compromessi. Conservare indignazione. Difendere la propria coscienza. Rifiutare la complicità del silenzio. Significa preservare quella capacità di indignazione che costituisce l’ultimo baluardo contro la rassegnazione.
Peppino Impastato, l’aveva capito: “Resistere a Mafiopoli è un atto radicale di verità”.
È scegliere l’integrità morale contro il compromesso. La giustizia contro il quieto vivere. È dire no alla normalizzazione dell’illegalità.
Oggi, come allora, quella stessa battaglia continua, contro nemici più subdoli.
La resistenza contemporanea richiede coraggio. Non quello delle parate, ma di chi rompe il silenzio. Di chi fa domande scomode. Di chi non scende a patti, anche se resta solo.
Il sistema ti blandisce, ti promette pace in cambio di coscienza.
Ma c’è chi resiste. Indomito. Scomodo. Ostinato. Spine nel fianco del potere grigio. Parole che rompono silenzi complici. Gesti che spezzano catene invisibili. Esempi che squarciano il velo dell’indifferenza.
Sono loro i veri anticorpi di una società malata. Gli ultimi custodi della dignità. Quelli che nessun sistema, per quanto pervasivo, potrà mai comprare.
Perché questa nuova mafia ha un solo terrore: chi tiene la testa alta.
La sfida più grande? L’invisibilità del fenomeno. La sua maschera di normalità.
Come combattere ciò che non si manifesta apertamente? Come denunciare chi agisce con strumenti apparentemente legittimi per fini illegittimi?
Serve una nuova grammatica della resistenza. Capace di nominare l’innominabile. Svelare l’invisibile. Restituire sacralità alla dignità umana.
A Mafiopoli si sopravvive abbassando lo sguardo. Ma si vive davvero solo tenendolo alto.
Resistere alla mafia degli incensurati è rifiutare l’indifferenza.
Perché “a Mafiopoli si muore dentro, ogni giorno. Ma chi resiste, invece, vive davvero”.
È questa capacità di conservare intatta la propria umanità, anche nelle circostanze più avverse, che costituisce l’essenza della resistenza civile contemporanea. Resistere a Mafiopoli è un atto di giustizia. Di bellezza. Di libertà.
A Peppino Impastato.
La sua resistenza ci ha insegnato che la verità non si negozia. Mai.
