In questo 2 giugno, festa della Repubblica, non possiamo limitarci alla retorica delle celebrazioni. Non possiamo accontentarci di qualche bandiera issata al vento o di solenni discorsi istituzionali, spesso svuotati di senso da chi, nei fatti, tradisce quotidianamente quei valori che proclama.
La Repubblica nasce il 2 giugno 1946. Ma non è nata dal nulla. È nata dalle ceneri di Auschwitz, dalle fucilazioni di Marzabotto, dal sangue versato sui monti della Resistenza.
Affonda le radici nel sacrificio di chi ha conosciuto la miseria della guerra, la fame, la disperazione. Nasce dalla volontà feroce di un popolo che ha conosciuto l’umiliazione della dittatura e ha gridato “mai più” alla tirannia.
La nostra Costituzione non è carta da museo. È un testamento scritto col sangue, un patto laico e incrollabile tra chi ha combattuto per la libertà e chi oggi è chiamato a difenderla.
Lo ricordava con rigore e passione Piero Calamandrei nel suo celebre discorso del 1955 rivolto ai giovani:
“Dietro ogni articolo di questa Costituzione, giovani, dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano…”
Quella Carta siamo noi. È viva solo se la facciamo vivere.
È nata affinché mai più l’arbitrio sostituisse il diritto, e mai più l’oppressione si travestisse da legalità.
Eppure, ogni giorno, nei piccoli comuni, dietro i vetri opachi degli uffici amministrativi, questo testamento viene vilipeso.
Da chi abusa del proprio potere, da chi amministra la cosa pubblica come fosse un feudo personale, da chi si maschera da salvatore mentre, com’è noto, è solo un aguzzino.
Quando un’istituzione calpesta i diritti dei cittadini, soprattutto dei più fragili, degli anziani, dei malati, non è più inefficienza o negligenza burocratica: è un crimine contro la repubblica. Siamo di fronte a un’offesa alla Costituzione. A un oltraggio al sacrificio di chi ha combattuto per il nostro presente. A un tradimento.
Non serve più un dittatore in camicia nera. Non servono più carri armati nelle piazze. La democrazia muore diversamente oggi: muore in quegli uffici pubblici. Muore ogni volta che il potere, anche il più piccolo, diventa prepotenza.
Oggi il pericolo non viene più dai colpi di cannone.
Viene ogni volta che l’arbitrio si sostituisce alla giustizia.
Dalla normalizzazione dell’abuso. Dall’accettazione del sopruso.
Dal silenzio complice di chi preferisce non vedere.
Non basta più dirsi democratici. È nell’azione concreta che si misura la fedeltà alla Repubblica. È nel rispetto autentico dei diritti fondamentali, nella tutela della dignità umana, nell’amministrazione giusta e non arbitraria della cosa pubblica.
Chi abusa del potere che il popolo gli ha affidato, chi dimentica il senso profondo del servizio pubblico, non è degno della Repubblica. È un pericolo per la democrazia. È il volto moderno e subdolo di quella stessa sopraffazione contro cui i nostri padri hanno combattuto.
Oggi, 2 giugno, non celebriamo un pezzo di storia, ma una battaglia ancora viva.
La battaglia per la giustizia.
La battaglia per la libertà.
La battaglia per la dignità.
Rispettate la Costituzione.
Onorate i valori democratici.
Contrastate gli abusi.
Con la verità. Con la giustizia. Con il coraggio civile che ha reso grande questa Nazione.
Per onorare chi è morto affinché mai più un cittadino dovesse chinare la testa davanti all’arroganza del potere.
Perché la Costituzione è viva solo se noi la teniamo viva.
E la Repubblica esiste solo se ogni cittadino è pronto a difenderla.
Perché la Repubblica siamo noi. Tutti. Sempre.
