Quel piccolo mondo di potere dove spesso l’eco delle proprie convinzioni risuona più forte delle voci dei cittadini
Sembra quasi che, una volta varcata la soglia dei palazzi del governo, da quelli nazionali a scendere, si acquisisca una sorta di immunità critica, una patente di infallibilità che relega le osservazioni dei “comuni mortali”, i cittadini, al rango di sterili lamentele o, peggio ancora, di inutili prese di posizione di parte.
È un copione fin troppo familiare: se ad esempio l’amministrazione locale presenta un progetto, magari con enfasi autocelebrativa o non del tutto proprio, le prime voci di dissenso vengono liquidate con un paternalistico “non capite”, “non avete la visione d’insieme” o, i classici dei classici, “siete solo contro a prescindere” e “candidati e facci vedere di cosa sei capace”.
Quasi che far notare alcune cose, esprimere una perplessità, sollevare un dubbio sulla sua efficacia o evidenziare potenziali criticità sia un atto di lesa maestà, un affronto personale alla saggezza illuminata di chi siede sulle poltrone che contano.
Eppure, la democrazia, quella vera, dovrebbe basarsi su un dialogo costruttivo, su un confronto aperto e sincero tra chi amministra e chi è amministrato.
Dovrebbe nutrirsi delle diverse prospettive, accogliere le critiche come stimolo, come opportunità di miglioramento, non come fastidiosi ostacoli al proprio operato.
Invece, troppo spesso, si assiste a un arroccamento sulle proprie posizioni, a una difesa oltranzista di ogni singola decisione, presentata come l’unica via possibile, la scelta più saggia e lungimirante, con il tipico atteggiamento da “Marchese del Grillo”.
Certo, non si può negare che a volte le critiche siano infondate o esagerate, dettate da pregiudizi o da una scarsa conoscenza dei fatti, ma generalizzare, etichettare ogni voce fuori dal coro come sterile lamentela o faziosità politica è un atteggiamento pericoloso, che mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e allontana sempre più la politica dalla realtà vissuta quotidianamente.
Forse sarebbe il caso di scendere da quel piedistallo di presunta superiorità intellettuale, di ascoltare con più attenzione le ragioni di chi vive sulla propria pelle le conseguenze delle decisioni prese e aprirsi magar ad un confronto pubblico.
Sarebbe anche un atto di “umiltà”, parola sconosciuta alla stragrande maggioranza dei politici, riconoscere che anche chi non siede sulle ben remunerate poltrone, pagate dai cittadini, può avere intuizioni preziose, idee innovative o semplicemente un punto di vista diverso, ma non per questo meno valido.
Perché, in fondo, la politica locale non dovrebbe essere un monologo autoreferenziale, ma un coro di voci che, pur nelle loro diversità, cercano insieme la strada migliore per la propria comunità.
E se questo coro viene sistematicamente silenziato o bollato come “lamentoso” , in particolar modo quello espresso sui social e in particolar modo quello su alcuni gruppi Facebook, definiti “gruppi pericolosi” o “personaggi poco raccomandabili” (cit.).
Se molte cose si sanno, non si offenda nessuno, è anche grazie ai social e a coloro che vi scrivono, social che alcuni disprezzano e che continuano ad attaccare ad ogni occasione, mentre loro ne fanno un grande uso personale, essendo probabilmente per alcuni l’unica possibilità per far sapere che esiste.
Il rischio è quello di ritrovarsi con la solita litania, ma a farne le spese, come sempre, sono i cittadini. Ad Maiora
