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“Visioni a confronto”. Di Marinella Andaloro

Last updated: 01/05/2025 12:02
By Redazione 370 Views 10 Min Read
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Visioni a confronto
Esistono luoghi dove le idee non rimangono confinate nell’astratto, ma forze vive che si traducono in azione, diventano imprese vibranti, visioni strategiche lungimiranti, politiche pubbliche incisive; ecosistemi in cui la progettualità non è un lusso ma una prassi quotidiana. E poi ci sono contesti in cui le idee invecchiano in fretta, impantanate in una burocrazia che soffoca ogni slancio.

Tale distinzione cruciale non segue coordinate geografiche – non è un semplice Nord e Sud, Occidente e Oriente – ma delinea due dimensioni parallele: da un lato sistemi vitali che accolgono il cambiamento come motore di crescita, dall’altro, realtà che lo temono e lo respingono, irrigidite nella difesa dello status quo. È questa la premessa ineludibile per qualsiasi autentica riflessione sullo sviluppo.

Vivere tra mondi contrastanti – come accade tra Sicilia ed Emirati – non è questione di latitudine, ma di visione.

Da un lato un sistema imbrigliato dalle consuetudini, dove l’innovazione resta prigioniera dell’inazione; dall’altro, un contesto alimentato da una forza progettuale che spinge costantemente verso un futuro in continua ridefinizione.

Non è necessario mitizzare, idealizzare o demonizzare, alcuno dei due modelli. Basta osservarli con l’onestà intellettuale di chi cerca di comprendere senza pregiudizi. Perché abitare entrambi questi mondi significa oscillare non solo nello spazio, ma nel tempo: tra un passato cristallizzato nell’immobilità e un futuro in vertiginosa accelerazione, tutto questo senza mai transitare per il presente.

Negli Emirati, la governance è pianificazione pragmatica.

Al di là di ogni giudizio sul sistema politico, è innegabile la capacità dei governanti di tradurre visioni in realizzazioni tangibili. Le istituzioni non frenano l’innovazione, ma la accelerano.

Il concetto di “futuro” non è esercizio retorico da convegno, ma orizzonte operativo: lo si vede nella continua metamorfosi urbana, nella capacità di attrarre investitori globali, nell’ecosistema vibrante delle start-up che premia merito e iniziativa. In un contesto cosmopolita che accoglie oltre duecento nazionalità, il talento vale più del pedigree. La meritocrazia, pur con le sue imperfezioni, è un criterio reale.

In Sicilia – emblematica ma non unica tra le regioni italiane afflitte da questa condizione – l’innovazione rimane troppo spesso intrappolata nel limbo delle dichiarazioni di intenti.

I progetti si annunciano, raramente trovano compimento. Le pratiche si avviano, raramente si concludono.

Si disquisisce retoricamente di rilancio economico, di fondi europei, di opportunità del PNRR, mentre la realtà quotidiana racconta una verità differente: attese infinite, silenzi istituzionali assordanti, diritti che si trasformano in concessioni opache, elargite con logiche imperscrutabili.

Le risorse si disperdono in procedure medievali, concepite più per gestire e consolidare posizioni di potere che per abilitare un cambiamento strutturale.

In questo scenario asfittico, l’impossibilità di agire diventa frustrazione che molti, comprensibilmente, scelgono di non tollerare ulteriormente.

Ed è così che si intraprende la via della partenza. Non per fuggire dalle proprie radici, ma per costruire altrove, in contesti che non penalizzino l’iniziativa e il talento. Non è abbandono ma scelta consapevole.

Talvolta prendere le distanze è un atto di coerenza e autodifesa: è scegliere di non tradire il proprio potenziale.

Così come hanno fatto milioni di emigranti italiani nel mondo, per non restare intrappolati in un presente paralizzato. Non per rivalsa, ma per dignità.

È una frustrazione che non si spegne nella rassegnazione, si traduce in responsabilità. Si parte – fisicamente o strategicamente – per generare valore dove ciò è concretamente possibile, per sottrarsi all’inerzia paralizzante, per continuare a creare significato.

In questo quadro, la riallocazione di energie, idee e competenze non costituisce una rinuncia, bensì un atto di tutela della propria integrità professionale e di coerenza etica.

Quando l’ambiente è impermeabile al cambiamento, prendere le distanze diventa un’espressione legittima di autodeterminazione.

Restare, pur sorretti dalla nobiltà dell’intento e dalla forza della resistenza, rischia talvolta di tradursi in un logoramento silenzioso, in una dolorosa sospensione del possibile.

La tragedia più profonda non è la scarsità di risorse, ma l’assenza di coerenza sistemica.

Quando le istituzioni promettono e non mantengono, non viene meno solo un dovere formale: si lacera un patto di fiducia implicito tra cittadino e istituzioni. E, in quel momento, il sistema crolla, perché dove le regole non valgono universalmente, nessuno si sente più tenuto a rispettarle.

Negli Emirati si può arrivare da perfetti sconosciuti e, dimostrando competenze, essere accolti e valorizzati.

In Sicilia – come in altri territori italiani irrigiditi – l’appartenenza a determinate reti di potere spesso conta più del talento. Il cambiamento viene tollerato solo se non disturba equilibri consolidati. La competenza suscita diffidenza quando osa mettere in discussione assetti ormai cristallizzati nel tempo.

Dove può mai trovarsi la meritocrazia in un contesto così?

Eppure, la Sicilia possiede un capitale umano straordinario. Non è leggenda, è realtà: profondità relazionale, intelligenza emotiva raffinata, capacità sofisticata di leggere il non detto e di interpretare le sfumature.

Proprio per questa ragione fa male vedere queste qualità soffocate da un sistema che non le riconosce, che non le premia, che costringe a cercare altrove lo spazio per esprimersi.

Il problema strutturale dell’Italia, nel suo insieme, non è la mancanza di eccellenze. È l’incapacità sistemica di trattenerle, di attrarne da fuori, di valorizzarle.

Oggi non serve più l’appello retorico al “ritorno dei cervelli”. Serve invece costruire ponti, reti, alleanze transnazionali. Non serve radunare talenti intorno a un campanile: la vera sfida è sviluppare la capacità del sistema-paese di connettersi efficacemente a questa intelligenza diffusa globalmente, di dialogare costruttivamente con chi ha scelto di crescere altrove senza mai davvero recidere le proprie radici culturali.

Un confronto tra le leadership mostra divergenze evidenti.

Negli emirati, i leader si misurano dai risultati. Guardano lontano, dieci, venti, cinquant’anni. Non inseguono il consenso immediato, ma la trasformazione profonda.

In Sicilia, troppi amministratori sembrano invece prigionieri di una visione a brevissimo termine, concentrati sulla gestione dell’esistente e al mantenimento del consenso più che sulla creazione di valore duraturo.

Ai politici siciliani si potrebbe umilmente suggerire non tanto di emulare modelli altrui, quanto di riscoprire la propria vocazione mediterranea all’apertura, al coraggio di immaginare trasformazioni radicali, e alla determinazione nel perseguirle, alla capacità e all’umiltà di attrarre competenze, al cosmopolitismo che ha reso la Sicilia, nei suoi momenti migliori, un crocevia di civiltà e progresso.
Infine, ogni esperienza porta con sé un insegnamento.

Gli Emirati ti spingono a coltivare ambizione, disciplina e una costante tensione verso il risultato.

La Sicilia, d’altro canto, educa alla resilienza, all’ascolto profondo, alla lettura sottile delle complessità.

Osservando la saggezza innata dello Sceicco Talib Al Qasimi, e il suo modo autentico di prendersi cura del proprio popolo –sempre disponibile ad ascoltare con rispetto, ad intervenire con discrezione ma fermezza e ad aiutare chiunque si rivolgesse a lui- riflette un senso di responsabilità verso la propria comunità e ho compreso quanto la leadership autentica non si fondi sull’autorità imposta, ma sulla fiducia costruita nel tempo.

In lui ho visto l’eredità vivente di una tradizione tribale che non è mai stata spezzata, ma trasformata: un passaggio naturale, dalla tenda nel deserto alle stanze del governo, dalle carovane alle holding globali. E questa fedeltà alle radici, unita alla tensione verso il futuro, che crea un legame profondo tra governanti e cittadini.

In questa transizione armonica dalla guida tribale alla leadership moderna si cela una verità che in Italia troppo spesso dimentichiamo: lo sviluppo sostenibile è quello che affonda le sue radici nel riconoscimento del passato e nella cura delle relazioni umane.

E questo, forse il più grande insegnamento di Talib che porto con me: che poter fare il lavoro che si ama è una delle forme più pure e tangibili di felicità.

Un lusso per pochi, certo, ma anche una responsabilità per chi ha il privilegio di costruire ponti tra culture, esperienze e visioni.

Perché non esistono luoghi perfetti in assoluto, ma contesti capaci di trasformarci. E che, in modi diversi, ci rammentano sempre un concetto tanto semplice quanto potente: la vita, sia essa vissuta tra le palme del Golfo o tra i limoneti siciliani, rimane una continua, sorprendente lezione di umiltà.

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