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Caltanissetta la città “babba” o “finta babba” e il rapporto con i social che, se usati bene e con intelligenza, evidenziano silenzi e tanto altro

Last updated: 25/05/2025 7:28
By Sergio Cirlinci 301 Views 8 Min Read
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Si narra che i catanesi sentendosi “sperti”, per legittimarsi ancor di più, decisero di affibbiare ad altre città il titolo di “babbi”.

In generale una città definita “babba”, sta a significare essere bonaria, innocente o priva di malizia.

Ai nisseni però tutto gli si può dire tranne l’essere bonari, innocenti o privi di malizia…semmai “sperti” e “babbi” a convenienza.

Ma se veramente si vuol far migliorare questa martoriata città, bisogna decidersi se essere “sperti”, “babbi” o ”finti babbi”

Ognuno è chiaro, ha il proprio carattere, le proprie idee, i propri principi, le proprie simpatie e antipatie, le proprie preferenze, in campo sociale, politico, sportivo, culturale, musicale, religioso, bisogna però, per vivere bene e meglio, non sentirsi soffocare dall’ambiente circostante, avere il coraggio di comportarsi ed esprimersi liberamente, quando specialmente c’è da difendere i propri diritti.

Invece capita sempre più spesso che, dipende dagli argomenti in campo, molta gente evita di esternare le proprie idee, vuoi per non contraddire qualcuno o, cosa peggiore, per paura di andargli contro, magari perchè è un personaggio importante, o semplicemente è il celeberrimo amico che domani potrebbe “tornare utile”.

Questo però è un vivere da finti “babbi”.

Basta consultare qualche gruppo di discussione, o ascoltare i discorsi al ber, per notare immediatamente la differenza tra “babbi”, “finti babbi” e “sperti”, ovviamente il tutto dipendedalla tematica affrontata.

Si diventa “sperti” quando si affrontano argomenti e personaggi lontani da noi, dove si è certi che le persone di cui si parla, mai leggeranno o sapranno.

Questo essere “sperti” scema immediatamente appena il tema è locale e di conseguenza si ha certezza che certe frasi arrivino ai diretti interessati, a questo punto molti diventano “babbi”, non sanno e di conseguenza non intervengono. I “finti babbi” invece, appena capiscono che il discorso si sposta su qualcuno di cui non osano proferire alcuna parola, si ricordano immediatamente di avere un impegno e spariscono.

Poi ci sono“babbi”, quelli veri, cioè coloro che, non sapendo argomentare p commentano con un “mah” o la buttano volutamente in “caciare”, per cercare di cambiare discorso.

Sarebbe ripetitivo ripetere i soliti “pari mali”, “un si sapi mai, “amara u bisugnu”, “cu avi amici è francu di guai”, etc. etc..

Purtroppo di certi problemi ne parla solo chi li prova o li ha provati sulla propria pelle, ma il grido e la voglia di combattere si affievolisce dietro il vuoto ed il velo di “omertà” che gli si crea attorno dimenticando che la ruota gira e quello che oggi coinvolge altri domani potrebbe coinvolgere noi.

Nessuno chiede ai cittadini di essere dei veri e propri partigiani, nel senso più puro della parola, ma almeno avere il coraggio di lottare per se stessi e far valere i propri diritti, senza il timore di dispiacere qualcuno.

In questo contesto ci sono i social media e il loro ruolo.

Quella piazza virtuale tanto amata e tanto odiata, un amore-odio così profondo che parlarne riesce molto difficile.

Li critichiamo, li denigriamo, alcuni ne auspicano la chiusura, eppure, alla fine, si ritrovano tutti lì, a prendersi la dose quotidiana di vanità o di indignazione. Ma in tutto questo vi è una doppia faccia.

Quando il nostro “amico” virtuale posta la foto della sua nuova auto sportiva, del suo viaggio o una sua nuova immagine, scatta il “like” , accompagnato da un “bellissimo/a”, “grande”, “mitico/a”.

In quel momento, i social sono la glorificazione del proprio successo o di quello altrui, sono una vetrina perfetta e che a molti piace.

In fondo siamo tutti un po’ influencer, tutti un po’ divi, pronti a raccogliere applausi e cuoricini digitali, e se per caso qualcuno osa criticarci, o peggio, mettere in discussione un nostro commento, ecco che allora i social diventano il tribunale dell’inquisizione, dove si viene linciati con commenti al vetriolo da chi non aspettava miglior occasione per farlo.

Ma provate a toccare l’amico politico, quello che si difende a spada tratta anche quando dice castronerie, o, peggio ancora, provate a far notare una nota critica su di lui, sul suo modo di operare.

Ecco che i social si trasformano in un’arena di gladiatori, dove l’arma è la tastiera.

L’odio si propaga più velocemente di un virus influenzale e empatia e cuoricini scompaiono.

Sembra quasi che l’amicizia scompaia immediatamente, reazioni che si attivano non appena la nostra o altrui immagine, quella dell’amico, viene minimamente scalfita.

E poi c’è la questione dell’informazione, che, a detta di molti, ci viene negata o manipolata dai “poteri forti”, i media tradizionali.

Ed ecco che i social, nonostante le critiche feroci sulla loro superficialità e sulla proliferazione di fake news, diventano un faro, una verità assoluta.

Perché, ad essere sinceri, chi ha tempo per leggere articoli lunghi e complessi, quando si può avere la verità in un post di 30 caratteri?

Non importa se la fonte è l’amico del cugino di terzo grado che neanche si conosce, non importa se la notizia è scritta in una lingua a noi sconosciuta l’importante è che “girava sui social”.

E così, gli stessi strumenti che si criticano per la loro scarsa affidabilità diventano la principale fonte di notizie, spesso di parte, spesso incomplete o false, ma di sicuro “virali”. Perché in fondo, la verità è oggi come oggi è un optional.

Alla fine, nonostante le lamentele i social sono una realtà e pochi ne sanno fare a meno.

Sono diventati un mezzo di comunicazione così pervasivo che ignorarli è come voler tornare a spedire lettere con i piccioni viaggiatori.

Che ci piaccia o no, sono la piazza, il salotto, il teatrino, bisogna però saperli usare.

Forse, l’unica cosa che ci resta da fare è imparare a navigare, a saper discernere le notizie, informandosi prima di postare o commentare, cercando di non fidarsi troppo rischiando di affogare, sapendo cogliere l’aspetto positivo e non lasciarsi coinvolgere troppo facilmente.

E magari, ogni tanto, spegnere lo schermo e ricordarci che la vita vera, quella fatta di sguardi, abbracci e conversazioni a quattrocchi, sono ancora i migliori “post” da condividere, sono la vita reale e non quella virtuale. Ad Maiora

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