“Una città che si trova nel cuore della Sicilia e che rappresenta quella Sicilia gattopardiana, quella Sicilia aristocratica, nel senso positivo e più alto del termine.”
Queste le parole pronunciate nel discorso di chiusura durante il conferimento. della cittadinanza onoraria, di Maria Grazia Vagliasindi, ex presidente della Corte d’Appello, in pensione dal gennaio 2024.
La definizione “Sicilia Gattopardiana” evoca immediatamente l’immagine di un’isola sospesa tra un passato immutabile e un futuro che stenta a emergere, un luogo dove, come recita la celebre frase di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo capolavoro Il Gattopardo, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.”
La frase, pronunciata dal personaggio Tancredi Falconeri, è l’emblema del “gattopardismo”, cioè l’atteggiamento di chi, in situazioni di cambiamento, si adatta per conservare i propri privilegi, mantenere lo status quo, quindi è necessario un adattamento, un cambiamento, anche se spesso è solo apparente.
Questa massima, che va oltre la letteratura, è entrata ormai nel lessico comune, cattura l’essenza di una terra complessa e affascinante, in cui le tradizioni e le strutture sociali sembrano resistere tenacemente a ogni tentativo di trasformazione.
La “Sicilia Gattopardiana” diventa così un simbolo di un immobilismo che si maschera di progresso, ma che in fondo dimostra un’incapacità di rompere veramente con schemi e mentalità consolidate.
E quando si parla di “Sicilia Gattopardiana”, non dobbiamo dimenticare che al centro di quella Sicilia c’è la nostra città.
“Ho voluto far capire che il vero antidoto alla povertà morale che si annida nella criminalità è la cultura, e Caltanissetta è una città incredibilmente viva dal punto di vista della cultura…voglio rivolgervi l’augurio di onorare questa città con l’impegno e la fedeltà all’etica valoriale, soprattutto voi che avete un compito. ha detto la neo nissena rivolgendosi al consiglio comunale, “La fedeltà all’etica valoriale è l’unico successo”.
Il concetto di “Gattopardismo” non si limita però soltanto alla politica, si estende alla sfera sociale, economica e culturale.
Nel nostro caso si manifesta nella lentezza con cui la città sembra adottare riforme significative, nella difficoltà di superare certe logiche clientelari, nella persistenza di un forte legame con il passato che, se da un lato è fonte di ricchezza culturale, dall’altro può essere un freno allo sviluppo.
Le sfide legate alla modernizzazione, all’innovazione e alla creazione di nuove opportunità si scontrano spesso con questa radicata tendenza a preservare lo “status quo”.
Eppure Caltanissetta non è solo immobilismo.
È anche una bella città, composta da persone molto attive, associazioni di vario genere e impegno civile, di una storia che ha visto avvicendarsi dominazioni e culture diverse, ognuna lasciando un segno e dal passato florido anche sotto l’aspetto economico.
Ma è anche una città piena di mormorii e rassegnazione, di critiche sussurrate e lamenti solitari, di una comunità che, pur vedendo la propria città scivolare in un declino inesorabile, sembra incapace di alzare la voce, di trasformare il disagio individuale in un dissenso pubblico e corale.
Quanti nisseni si ritrovano ogni giorno a inveire contro il sistema, a condannare l’immobilismo politico, a pentirsi di una fiducia mal riposta, ma lo fanno chiusi, rigorosamente da soli, di fronte allo specchio del proprio bagno.
Quante volte la frustrazione monta, la rabbia ribolle dentro, ma si dissolve nel momento stesso in cui si chiude la porta di casa.
Questo rituale intimo, per quanto catartico possa apparire, è anche la manifestazione più evidente di un profondo senso di impotenza e di una radicata cultura del “non disturbare il manovratore”.
A Caltanissetta, la logica del “cu avi ha amici è francu di guai” sembra prevalere su ogni altra considerazione e dove l’apparire conta più dell’essere.
Un detto popolare che si traduce in un “clientelismo diffuso”, spesso non riconosciuto neanche a se stessi, ritenendo normali certi comportamenti e atteggiamenti, in una ricerca costante di scorciatoie e favoritismi, piuttosto che nella rivendicazione di diritti e nella richiesta di trasparenza e meritocrazia.
Questa mentalità, per quanto comprensibile in contesti di difficoltà, finisce per alimentare un circolo vizioso in cui la dipendenza dal potere si rafforza, soffocando ogni velleità di cambiamento.
Non si critica apertamente per non compromettere rapporti, per non bruciare ponti che potrebbero un giorno tornare utili, per non rischiare di perdere quel minimo di “protezione” che il sistema, in fondo, sembra garantire.
E così, mentre la città si spegne lentamente, pezzo dopo pezzo, i nisseni assistono, in alcuni casi, volutamente impotenti.
Vedono i negozi chiudere, le strade svuotarsi, le opportunità svanire, pagano tasse sempre più salate, assistono alla partenza dei propri figli, costretti a cercare altrove un futuro che la loro terra non riesce più a offrire.
La sofferenza è palpabile, il senso di perdita profondo, eppure il grido di dolore collettivo stenta a levarsi.
Si preferisce subire in silenzio, forse nella vana speranza che le cose cambino da sole, o che qualcuno, dall’alto, si accorga del dramma che si sta consumando.
Ma quanto a lungo si può andare avanti così? Non è forse giunto il tempo di rompere il silenzio, di trasformare i sussurri in un coro potente e inequivocabile?
Non è forse ora di far capire a chi di competenza che la misura è colma, che le poltrone e gli incarichi non bastano più, che è tempo di smetterla di pensare agli interessi personali e di iniziare a lavorare concretamente per il bene della città e dei suoi abitanti?
Ribellarsi non significa necessariamente scendere in piazza con violenza, ma significa innanzitutto prendere coscienza della propria forza come comunità, esigere trasparenza, partecipare attivamente alla vita pubblica, pretendere risposte e votare con consapevolezza, premiando chi dimostra di avere a cuore il futuro di Caltanissetta e punendo chi, invece, si è dimostrato inadeguato.
Solo così si potrà spezzare la catena del silenzio e della rassegnazione, e dare una nuova speranza a una città che merita di rinascere.
Non resta che augurarsi che le magnifiche parole pronunciate, vengano comprese bene e nella sua profondità e che servano da stimolo, trasformandosi in azioni concrete, e non solo ascoltate e applaudite.
Ma per molti bisogna parlare solo delle cose “belle”, non sia mai che qualcuno si accorga che siamo con le pezze laddove non batte il sole. Ad Maiora
