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Reading: Gaza, l’urlo dei 300mila. “L’Italia riconosca la Palestina”. Centrosinistra unito per Gaza e la contromanifestazione della comunità ebraica. Le parole del sen. Gasparri “Siamo dalla parte di Israele contro ogni forma di antisemitismo nel mondo”. Ampia rassegna stampa
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Gaza, l’urlo dei 300mila. “L’Italia riconosca la Palestina”. Centrosinistra unito per Gaza e la contromanifestazione della comunità ebraica. Le parole del sen. Gasparri “Siamo dalla parte di Israele contro ogni forma di antisemitismo nel mondo”. Ampia rassegna stampa

Last updated: 08/06/2025 10:34
By Redazione 141 Views 26 Min Read
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In trecentomila, secondo i promotori, sfilano per le vie di Roma fino a gremire San Giovanni che l’opposizione non riempiva da anni. Schlein, Conte, Fratoianni e Bonelli sotto le stesse bandiere della pace e insieme sul palco. L’appello alla premier

Il colpo d’occhio è impressionante.
Evoca anni lontani, ben altri tempi e altri comizi, quando il leader della sinistra era uno solo e da solo riempiva ogni anfratto di piazza San Giovanni, la piazza storica dell’opposizione allora guidata da Enrico Berlinguer. Icona di un mondo che si credeva perduto, diviso, rassegnato alla sconfitta, e invece ecco: alle tre del primo sabato di giugno che sembra agosto, sotto un sole giaguaro che fa sudare e imprecare, quel popolo si è come per incanto ritrovato laddove tutto è cominciato: per urlare
«fermate i massacri a Gaza» certo, ma soprattutto «unità», «unità», ancora «unità». Il grido scandito a mo’ di supplica lungo il corteo e sotto al palco, per dire ai quattro capitani del campo progressista — Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli — «fatelo davvero stavolta per favore», mentre la marea umana che invade la spianata prospiciente la basilica resta incastrata nelle vie d’intorno, impossibilitata a entrare tanta gente c’è. Volti noti e vecchie glorie della politica come La Malfa, Bindi e Bersani: la pattuglia di piddini riformisti — Sensi, Verini, Guerini — che il giorno prima erano da Renzi e Calenda a Milano e oggi qui, confusi nella moltitudine di cittadini comuni.
«Siamo trecentomila» annuncia Valentina Petrini al microfono quando la manifestazione indetta per condannare i crimini del governo israeliano e chiedere a quello italiano di non essere più «complice» e riconoscere finalmente lo Stato di Palestina, è appena a metà. Nessuno si aspettava una cosa così. Cinquantamila era stata la previsione della vigilia, numeri bassi, forse per scaramanzia. È la prima volta che accade dacché Giorgia Meloni ha varcato il portone di Palazzo Chigi.
La prima vera piazza della sinistra unita — Pd, M5S e Avs — in attesa del centro che, è convinzione di molti, pure verrà. Un messaggio forte e potente: dopo stasera, difficilmente la presidente del Consiglio potrà far finta di niente. Chiamarlo «avviso di sfratto», come qualcuno tra la folla azzarda, è forse eccessivo. Ma di sicuro è un alert che qualcosa sta succedendo nel ventre del Paese, si muove, cresce come l’onda di bandiere e cori e speranze che ha invaso piazza San Giovanni.
Se ne accorgono subito i segretari chiamati a concludere la maratona oratoria nutrita di opinionisti palestinesi (Rula Jebreal), attivisti anti-Hamas e obiettori di coscienza ebrei. Tutti concordi, pur con qualche sfumatura sulla definizione degli eccidi a Gaza — «È genocidio» stabiliscono Conte, Fratoianni e Bonelli, termine che invece Schlein non userà mai — nel respingere le accuse di antisemitismo («Nel nostro dna c’è sempre stata la lotta a ogni forma di razzismo», protesta Bonelli) e soprattutto la critica al governo «codardo» di Meloni, che non fa nulla per spegnere l’incendio in Terra Santa. «Deve uscire dal silenzio complice», attacca la segretaria del Pd. «Faccia atti concreti, non rinnovando il memorandum di collaborazione militare con Israele che, con
la sua pulizia etnica, sta violando il diritto internazionale umanitario», incalza Schlein. «Noi non ci sentiamo rappresentati da un governo che volta la faccia dall’altra parte.
Mi rivolgo a Meloni: ascolta questa piazza. Questa è la piazza che non tace, che lancia un messaggio chiaro. È l’altra Italia». Lo urla forte anche Giuseppe Conte: «Bombe su case, scuole, ospedali. Tutto questo come lo chiamiamo? Genocidio», sillaba il capo del M5S. «Oggi qualche ministro ha iniziato a balbettare, a dire “60 mila morti sono troppi”. Che ipocrisia, che vergogna! Perché 30mila o 50 mila erano accettabili?
Dovevamo aspettare 16 mila bambini trucidati?», si accalora, additando la recente missione di Matteo Salvini in Israele. «Questo è un governo che stringe le mani insanguinate di Netanyahu». È però Fratoianni a tirare le somme, dire che quel che tutti pensano ma non osano: «Questa manifestazione dice che possiamo cambiare il Paese e poi le sorti di un mondo terribile.
Noi tutti insieme, uniti, da oggi ancora di più. Ci rivedremo presto », augurio che sa, finalmente, di
promessa solenne.
È finita. Sul palco si canta Bella ciao, accompagnata dalla tromba di Paolo Fresu. I quattro moschettieri della sinistra si avvicinano insieme al microfono: «Tutti a votare » strillano. Ai referendum, è sottinteso.
Schlein ha la felicità scolpita in volto: «È stata un’emozione grandissima, una risposta straordinaria,
era tanto che non vedevamo una piazza così». E pure Conte forse si è convinto che entrare in campo
è meglio che restare fuori: «Ci fa piacere esserci ritrovati su questa battaglia», si lascia andare a sera,
«a riprova che sono gli obiettivi comuni e i progetti concreti a creare un’idea alternativa di Paese. Meloni la si manda a casa solo così». Il popolo di San Giovanni ora ci crede.

Da la Repubblica di Giacomo Vitale

A fine giugno a Bruxelles l’esecutivo punta a confermare il suo no alla modifica degli accordi di
partenariato Ue-Tel Aviv

Della piazza pro-Gaza di ieri — filata liscia: colpo d’occhio riuscito, zero tensioni, nonostante i pronostici di qualche giornale di destra alla viglia — la maggioranza si concentra sull’ultimo
spezzone. Cioè sull’appello dei 4 leader di centrosinistra per andare a votare ai referendum
di oggi e domani. «Silenzio elettorale violato, strumentalizzazione di Gaza», è la linea che
dettano i vertici di FdI alle truppe parlamentari alle sei di sera, dopo un giro di telefonate che, secondo fonti della fiamma, hanno coinvolto direttamente la premier, Giorgia Meloni.
Per il resto, silenzio. Sui numeri. Sul senso della mobilitazione, dire basta al massacro dei civili
palestinesi per mano del governo di Benjamin Netanyahu. Tra i ministri, l’unica a esporsi è Daniela
Santanché. La titolare del Turismo se la prende con i «due Pd», cioè quello sceso in piazza a Roma
dietro a Elly Schlein e i riformisti che avevano aderito ieri l’altro alla maratona di Milano per i due
stati, promossa da Renzi e Calenda.
C’è un motivo, se il centrodestra ha evitato di esporsi, sulla manifestazione di San Giovanni.
Anche in maggioranza leggono i sondaggi, come quello pubblicato da YouGov martedì, il quale ha
mostrato che il sostegno per Israele è ai minimi storici in Europa. E che il giudizio degli italiani è tra i più negativi del continente. Non è un caso se nel corso dell’ultimo mese, l’esecutivo ha cambiato toni. O meglio: dal silenzio che
aveva accompagnato l’avvio dell’invasione della striscia, si è passati a una progressiva presa di distanza su un’operazione «inaccettabile », copyright di Meloni tre giorni fa, senza però mai pronunciare quella parola: «Condanna» per l’azione di Netanyahu. È l’ennesima prova di equilibrismo in politica estera, per la premier.
E per i suoi alleati. Matteo Salvini, che ancora a metà febbraio era volato in Terra santa «orgoglioso» di stringere la mano di “Bibi” a favore di flash, ha archiviato i toni da fan. Antonio Tajani da un
mese ripete «basta» attacchi israeliani, senza spingersi troppo in là, anche perché dalla Farnesina
deve tenere i contatti con la controparte di Tel Aviv.
È un cambio di linea soprattutto comunicativo, pur tra mille impacci, che tiene conto degli umori
dell’opinione pubblica. Politicamente, l’Italia si appresta però a votare — per la seconda volta —
contro la revisione dell’accordo di partenariato tra Ue e Israele.
Tra due settimane, il 23 giugno, i ministri degli Esteri dell’Unione sono convocati a Bruxelles. Nel corso della riunione, su pressing dell’Olanda, si discuterà nuovamente di una modifica dell’intesa
con Tel Aviv, in particolare per determinare se Israele stia violando l’articolo 2 dell’accordo, una clausola che vincola le relazioni al rispetto dei diritti umani. Durante la prima discussione, il 20 maggio, 17 paesi avevano sottoscritto la richiesta di revisione del patto.
L’Italia, insieme alla Germania e all’Ungheria, si era opposta. Secondo fonti governative di primo
piano, la linea di Meloni e Tajani è per un nuovo voto contrario nel summit di fine mese.
Per annullare l’intesa è necessaria l’unanimità, tra i 27. Ma a Bruxelles già si studiano le mosse e si
ragiona su modifiche parziali, per cui potrebbe bastare una maggioranza qualificata dei paesi
membri. Ipotesi di cui ha parlato anche il presidente del consiglio europeo, Antonio Costa, ricevuto
l’altro ieri da Meloni a Palazzo Chigi.

Da la Repubblica di Lorenzo De Cicco

Giovani, famiglie e artisti tra kefiah e bandiere “Un dovere essere qui

Quando la testa del corteo arriva in piazza San Giovanni, la coda è ancora ferma a piazza Vittorio. Gli organizzatori della manifestazione per Gaza avevano scommesso su 50mila presenze. Ieri
in piazza ce n’erano molte di più, una folla di cui non si vedeva la fine.
Tante bandiere di partito, sì, ma anche, e soprattutto, tante persone comuni di ogni età, giovani dalle scuole e dalle università, coppie, famiglie, lavoratori, pensionati. Senza spezzoni, un unico magma, pochi striscioni, decine di cartelli fai-da-te. Un popolo di sinistra che si ritrova, si riconosce: «Ma quanti siamo? Siamo tantissimi», dicono tutti lungo il percorso, sopra i tamburi itineranti, sopra i cori che rimbombano in via Emanuele Filiberto: «Free, free, Palestine».
Roma per un pomeriggio ha il cielo dei colori della Palestina, sfila sotto la bandiera di decine di metri srotolata lungo il percorso insieme a quella della pace e a una stampa di Guernica per dire «basta al genocidio». Il sole picchia ma non scoraggia il popolo pro-Pal: «Finalmente, meglio tardi che mai», urla Edoardo, arrivato da Napoli rivolgendosi ai politici che guidano il corteo.
Un po’ in disparte, alla sinistra geografica del serpentone, appare il regista Nanni Moretti. Due settimane fa aveva pubblicato un post con la faccia di Benjamin Netanyahu con scritto: «Ma quanti palestinesi devono ancora morire perché tu sia soddisfatto e finalmente la smetta?». E quindi eccolo qui, camicia azzurra e sguardo rivolto in avanti, nella sua marcia silenziosa.
Tra la folla c’è anche il cantautore e musicista Toni Esposito. «Il dovere di ogni cittadino è protestare
contro questa mattanza che il mondo sta a guardare con indifferenza», dice. E poi Paolo Calabresi e Pif, Vauro e Paola Michelini, Gianrico Carofiglio e Anna Foglietta, Marco Bonini e Paola Minaccioni dietro lo striscione «Every child is my child». Fiorella Mannoia e Paola Turci camminano
insieme con la kefiah legata alla borsa e la bandiera della Palestina: «È un dovere civile esserci — ripetono in coro — Noi non siamo mai state zitte, ma c’è chi lo ha fatto per troppo tempo, chi come Meloni tace ancora, una parte di informazione che resta complice. In Italia stiamo qui a dividerci sulle parole, a Gaza bombardano: una strage di innocenti, un genocidio vergognoso.
Non c’entrano i partiti, è una questione di umanità. L’opinione pubblica, questa piazza qui, di gente comune, normale, si è stancata di questo massacro. Ora basta».
Cinque donne stringono a loro dei fagotti insanguinati, c’è un cartello con Hitler che bacia Netanyahu, i cartelli che gridano «stop arming Israel», le foto dei bambini massacrati, chi indossa magliette con su scritto «possiamo combattere il genocidio palestinese e l’antisemitismo allo stesso tempo».
E poi Klaus Davi con la kippah arcobaleno in testa e la bandiera d’Israele, che «è una grande democrazia con un premier liberamente eletto.
Io sono qui in piazza per chiedere la liberazione della Palestina da Hamas». Qualcuno non apprezza e
gli ruba la bandiera, ci penserà la Digos.
Ce ne sono altri due, in tutto, di vessilli con la stella di David. Matteo Hallissey, presidente di +Europa, la bandiera israeliana l’ha legata a quella palestinese in un «gesto simbolico di dialogo e riconciliazione».
C’è chi gli passa accanto e applaude, «per due popoli e due Stati», chi critica ferocemente, «perché ora quella bandiera rappresenta uno sterminio». Qualche fischio, prima di molti applausi, se lo prende anche Gad Lerner quando dal palco si definisce sionista.
I cori sono tutti per Netanyahu e il governo italiano «complice». Ci sono spillette e cartelli contro la premier.
«Sono padre, sono cristiano, sono nonno, sono italiano, non sono assassino», si legge parafrasando
le dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Poi, dopo quattro ore e mezzo, la manifestazione si chiude sulle note di Bella ciao, la piazza unita la canta, Paolo Fresu la suona alla tromba, allunga la nota finale, ora sembra una sirena antiaereo.

Da la Repubblica di Gabrielle Cerami e Viola Giannoli

Quell’urlo un messaggio alla premier Per quei padri che piangono perché non sanno cosa dar
loro da bere o da mangiare. E se è sicuro essere dove sono, o arriverà un missile, una bomba, un
soldato. C’è la vergogna per quelle immagini che non riusciamo a sostenere e per tutto quello che non facciamo, che non diciamo, per fermare un massacro che va oltre l’immaginabile e che non può
essere giustificato dalla tragedia del 7 ottobre e dai 1200 israeliani sterminati da Hamas.
Il centrosinistra ha saputo raccogliere questo sentimento collettivo e ha organizzato una
manifestazione che ha dato modo a tutti gli uomini di buona volontà di dire: basta, non nel mio nome. Non nel mio nome di diciottenne israeliano obiettore di coscienza che preferisce andare in prigione piuttosto che partecipare al massacro; non nel mio nome di ebreo sionista che vede come la
Shoah sia strumentalizzata da Netanyahu per coprire le sue nefandezze; non nel mio nome di
uomo delle Acli che pensa che nessuna religione possa essere usata per uccidere un solo bambino mai. E sembra così cristallino che la piazza si emoziona e tace e i più anziani che stanno sui bordi della strada a cercare l’ombra osservano immobili e muti, come in preghiera.
Com’è possibile che il governo non senta questo urlo di indignazione collettivo e non sappia rispondere a questo popolo con l’unico atto che avrebbe un senso oggi? Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Il rifiuto di quella che la segretaria pd Elly Schlein non
stenta a definire pulizia etnica, mentre il presidente dei 5 stelle Giuseppe Conte usa la parola genocidio. Ma non è sulle parole che bisogna dividersi ed è sulla ricerca strenua della pace che
bisogna essere capaci di unirsi. Per la prima volta dopo molto tempo, Pd, Avs e M5S sono riusciti a
mettere da parte le divisioni e a lavorare insieme per qualcosa e tutti — anche chi ha cercato di
distinguersi — devono prendere atto che l’operazione non era solo auspicabile, ma necessaria. Perché ha dato voce a chi voleva dire no al massacro senza confondersi con chi grida slogan sbagliati o scambia il terrorismo per resistenza. Davanti a una partecipazione così larga, gli estremismi arretrano. Il centrosinistra capisce quale può essere la sua forza quando sa mettersi in ascolto del Paese. E il centrodestra di governo rimane a balbettare accuse insensate come quella sul silenzio elettorale perché non è capace di dire nulla sul merito: non basta Food for Gaza a mettere l’anima in pace a un Paese come l’Italia. Serve un’iniziativa politica forte a livello europeo che faccia pressione su Netanyahu in ogni modo possibile. Che levi gli alibi a chi difende le ragioni di Israele prendendo le distanze da ogni forma di terrorismo o antisemitismo e da ogni attacco all’esistenza dello Stato ebraico, ma che non esiti a interrompere gli accordi con un governo che si sta macchiando di crimini di guerra da mesi, usando la fame come arma, interrompendo il flusso degli aiuti, mirando sui civili senza alcuna
remora. Giorgia Meloni non può ignorare una piazza fatta di 300mila persone che raccoglie
mondi così diversi eppure uniti a invocare pace. Non si tratta di ragioni di partito, ma di qualcosa di
più profondo. L’Italia ripudia l’orrore, sente la vergogna, e non vuole essere complice.

Da la Repubblica di Annalisa Cuzzocrea

La piazza era pronta: dopo venti mesi di genocidio le opposizioni abbandonano le timidezze
e scoprono una grande mobilitazione per Gaza. «Siamo trecentomila», gridano Pd, 5S e Avs
dal palco di Roma. Prove di unità: «Governo complice, riconosca lo Stato di Palestina»

Centrosinistra unito per Gaza: 300 mila in piazza San Giovanni. I leader di Pd, 5S e Avs: «Governo codardo, ora riconosca la Palestina. Qui c’è l’Italia che non tace»

Bloccato il corteo, «mancano agenti»

Niente corteo per i giovani palestinesi d’Italia a Milano. Dovevano sfilare fino alla Prefettura, ma
sono stati bloccati dalla polizia e si sono fermati in presidio a Porta Venezia.
«Siamo stati bloccati a Porta Venezia e accerchiati dalla polizia – spiegano gli organizzatori – la questura di Milano ha vietato il corteo giustificando la decisione con la presunta indisponibilità di un numero sufficiente di agenti per “garantire la sicurezza”, tuttavia al nostro arrivo a Porta
Venezia abbiamo trovato un massiccio dispiegamento di forze di polizia. Più di una decina di
camionette della celere»

UN CENTINAIO RIUNITI PER RISPONDERE AI GIALLOROSSI
Presidio pro-Israele alla Sinagoga Mentre la destra non commenta per Iddo Elam, 18enne israeliano,
che è stato in carcere per aver detto no al servizio militare: «Ci chiamano traditori e antisemiti, ma
criticare i crimini del governo fascista di Netanyahu non è antisemitismo. Il carcere per me è un piccolo prezzo da pagare per non aver partecipato al massacro dei palestinesi.
Continuerò a combattere per la pace». «Esiste un’altra Israele che merita di essere salvata», dice Anna Foa. «Il piano di sostituire i palestinesi a Gaza con delle colonie è nato prima del 7 ottobre», ricorda Luisa Morgantini. Gad Lerner fa un discorso coraggioso, in cui si definisce «sionista che è diverso da fascista», suscitando qualche fischio. Qualcuno gli grida «Vai a casa ». Lui replica: «No, io testo qui, i gruppi dirigenti di Hamas e di Netanyahu si somigliano nel loro fanatismo, la convivenza dei due popoli è l’unico sbocco razionale». Cita Primo Levi, definisce la Shoah e la Nakba «sinonimi», invita la piazza sostenere i dissidenti che sono «l’unico antidoto ai fondamentalismi». «Non possiamo più tollerare l’indifferenza che ha contraddistinto almeno 16 dei 18 mesi successivi
al 7 ottobre», dice il presidente dell’Arci Walter Massa. «Non può esserci equidistanza davanti a questa invasione feroce», gli fa eco il collega delle Acli Emilano Manfredonia, che ringrazia e i leader per aver convocato la piazza insieme: «La gente vi vuole insieme». Per un giorno è successo davvero. E sarà difficile fermare questo treno. II Un centinaio di persone si sono riunite davanti alla Sinagoga
di Roma sventolando bandiere di Israele, mentre la marea di manifestanti invadeva piazza
San Giovanni per il corteo convocato dalle opposizioni. Il motivo dichiarato era «rispondere
ad alcune dichiarazioni di Elly Schlein e di altri rappresentanti del centrosinistra». I presenti
avevano cartelli con scritto «Bring them home now» («Riportateli subito a casa» riferito
agli ostaggi israeliani, ndr), «Free Gaza from Hamas» e «Orgogliosi di essere ebrei, italiani
e sionisti».
«Ci sono tante inesattezze sulla ricostruzione dei fatti in Medio Oriente. I dati vengono distribuiti
da Hamas e presi come se fossero una legge», hanno detto, contestando la conta di
morti, feriti e dispersi nella Striscia di Gaza. «Noi siamo per la pace, per la soluzione “due popoli
e due Stati”. Ma gli Stati arabi devono riconoscere l’esistenza di Israele, cosa che ancora oggi
non avviene», hanno proseguito, per poi contestare la legittimità dei colloqui di pace: «Hamas,
gruppo terroristico riconosciuto come tale anche dall’Ue, pretende di dire come portare
avanti le trattative. Come se si desse modo di dettare le condizioni a gruppi come le Brigate
Rosse o Boko Haram». Il punto di frizione con la manifestazione di San Giovanni è
l’attribuzione delle responsabilità della guerra, al di là della proporzionalità della risposta
militare: «Quando si dichiara guerra a un’altra nazione, com’è avvenuto il 7 ottobre, bisogna
accettare le conseguenze. Quando gli alleati bombardarono Dresda ci furono tanti civili tra le vittime. La colpa non è di chi fa la guerra ma di chi la provoca» hanno dichiarato. Per poi concludere sulla possibile risoluzione: «Se Hamas si arrendesse e consegnasse gli ostaggi tutto si fermerebbe all’istante».
Silenzio assoluto invece dalle parti del governo e della maggioranza, che sceglie di non rilasciare
dichiarazioni e opta per il no comment. Solo il capogruppo di Forza Italia al senato, Maurizio
Gasparri, prima dell’inizio della manifestazione spende qualche parola al giornale radio
Rai: «Il ministro Tajani ha più volte chiesto la cessazione degli attacchi di Israele a Gaza. Non
dimentichiamo però che Iran, Hezbollah, Houthi e Hamas vogliono la distruzione di Israele.
Siamo dalla parte di Israele e contro ogni forma di antisemitismo nel mondo». Dopo che il
corteo ha iniziato a sfilare, e i numeri diventano importanti, quasi tutto tace, escluse timide
polemiche da parte di Fdi, che accusa la manifestazione di essere strumentale alla propaganda
per i referendum.

Da il Manifesto

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