Da La Sicilia di Laura Distefano e Laura Mendola
Un uomo al potere, ma non di un sistema. E poi esponenti delle forze dell’ordine infedeli e inconsapevoli i che gli ronzavano attorno ma senza avere un arricchimento personale.
È questo il sunto delle 63 pagine con le quali la Corte di Cassazione, otto mesi dopo, spiega le motivazioni per cui ha annullato senza rinvio l’accusa di associazione a delinquere «perché il fatto non sussiste» facendo decadere tutte le statuizioni civili collegate. Per gli ermellini il “sistema” non c’è mai stato, ma c’è stato un piano individuale.
La Cassazione scrive che Antonello Montante, ex leader degli industriali, è stato «l’ape regina», cioè un «punto di riferimento per tutti, che tutto muoveva e attorno al quale tutto girava, ma al di fuori di una struttura organizzativa».
La sesta sezione della Suprema Corte ha depositato (finalmente) le motivazioni con le quali hanno disposto per Montante, Diego Di Simone e Marco De Angelis (assolto il generale della Guardia di Finanza Gianfranco Ardizzone) un processo bis a Caltanissetta.
Reggono, infatti, le contestazioni di corruzione e accesso abusivo allo Sdi.
Che l’associazione guidata da Montante non esistesse lo aveva già stabilito la Cassazione nel 2018 (eravamo nella fase cautelare) e aveva spiegato anche le ragioni.
Ma nonostante tutto il processo è andato avanti con l’accusa che si è frantumata perché si era in
presenza di «una struttura monca, senza legame, con partecipi ignari di tutto, con reati fine isolati e tra loro scissi, senza la condivisione di un programma unitario», di contro c’è stata «una serie di condotte svincolate e caratterizzate da finalità egoistiche individuali».
Per la Cassazione i giudici della Corte d’appello nissena – che hanno condannato Montante ad 8 anni
di reclusione – non sono riusciti a spiegare le utilità che avrebbero avuto i diversi esponenti delle forze dell’ordine (alcuni sono imputati nel processo in ordinario e per loro la prescrizione sembra ormai un dato di fatto) anche se «di ciò la stessa Corte di appello mostra di essere pienamente
consapevole e per tale ragione ha costruito la struttura del delitto associativo in modo sconnesso, ipotizzando l’esistenza di un’associazione strutturata in rami autonomi e non comunicanti e, in realtà, non autosufficienti».
Tutto ruotava attorno alla figura di Montante: «alla sua ascesa sociale, al consolidamento sempre maggiore del suo potere sul territorio, alla sue relazioni, al generale contesto clientelare originato dal livello altissimo delle relazioni, al suo credito reputazionale acquisito, al consenso diffuso creatosi.
Un contesto che portava le persone ad avvicinarsi – o a tentare di farlo – per sperare di ricavarne una utilità.
Ciò – argomenta la Suprema Corte – è senz’altro provato nel processo.
E tuttavia, ciò che non è stato provato è la dimensione collettiva» e «l’impegno associativo assunto» oltre alla «consapevolezza dei singoli di essere “parte di un tutto”, di essere parte di una macchina, di una struttura, che fonde le singole condotte e le unifica sotto un interesse comune che prescinde
da quello individuale».
Secondo gli Ermellini «non vi è traccia » delle «condotte partecipative che si sarebbero protratte per anni, al di là di quelle derivanti dai fatti corruttivi specifici e commessi a distanza di anni dall’ingresso nel sodalizio, di utilità conseguite dai partecipi; una partecipazione criminale, pluriennale ma senza arricchimento».
«Una partecipazione ad un’associazione criminale rispetto alla quale non sarebbe stato noto ai più né il programma delittuoso condiviso, né i soggetti che avrebbero fatto parte del sodalizio, né la dimensione collettiva dell’agire illecito e neppure il vantaggio derivante dal reato».
Nonostante tutto Montante è stato uno degli imputati e ancora oggi non è «obiettivamente chiaro perché Montante, che sarebbe stato l’indiscusso sovrano di tutto e di tutti, avrebbe avuto in un dato momento storico la necessità di corrompere gli stessi partecipi del sodalizio da lui capeggiato e diretto, le stesse persone che già per anni avevano assicurato silente obbedienza, gli stessi pubblici
ufficiali infedeli che avevano asservito per anni se stessi, la loro funzione, il loro “essere” senza ricevere alcunché in cambio».
Ed ecco le conclusioni: «Il processo consegna sul piano probatorio l’esistenza, come già detto, di una serie di fatti illeciti che operano su piani diversi, che non si incontrano mai e che sono caratterizzati da un comune denominatore, cioè dall’asservimento clientelare in una dimensione individuale.
Dunque, un processo che rivela la mancanza di una dimensione collettiva: plurimi reati di accesso abusivo ad un sistema informatico e di rivelazione di segreti d’ufficio, in realtà compatibili con un programma “temperato” e, dunque, con l’istituto del concorso nel reato continuato».
Da La Sicilia di Laura Distefano e Laura Mendola
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