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La sanità siciliana è un sistema che si regge sul disordine organizzato della corruzione

Last updated: 01/10/2025 9:01
By Redazione 155 Views 10 Min Read
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Mazzette nelle bomboniere, esami istologici consegnati dopo mesi, ascensori che precipitano: non sono episodi isolati, ma frammenti di un sistema che resiste a ogni tentativo di riforma

C’è un paradosso, nella sanità siciliana, che meriterebbe di essere appeso in una galleria d’arte: più la si indaga, più sembra moltiplicarsi. Non è un sistema malato, è un sistema che ribolle, per usare un’espressione da cronaca giudiziaria, da cui escono in sequenza, come da un videopoker sfortunato, dirigenti in manette, bomboniere con mazzette e, ovviamente, l’immancabile processione dei protocolli di legalità.

Perché, se è vero che le rivoluzioni in Sicilia si fanno con un telefono e qualche cena giusta, nella sanità il modus operandi è più raffinato, ma non meno pittoresco. Nell’ultimo scorcio di tempo, giusto per non annoiarci, abbiamo avuto tre inchieste che hanno scosso il settore. Un trittico da brividi.

L’ultima puntata è un noir ambientato in un parcheggio d’ospedale. Protagonisti: Mario Lupo, presidente della Samot (onlus per cure palliative), e Francesco Cerrito, dirigente dell’Asp. La scena è talmente surreale da sembrare un monologo di Ficarra e Picone: la mazzetta da duemila euro viene consegnata non in una busta scura, ma, con una certa eleganza macabra, nascosta dentro la scatola di una bomboniera. Ma quei dodicimila euro totali, versati in rate, erano solo il prezzo per sbloccare i rimborsi milionari per le cure palliative. Ed è qui che si apre il vaso di Pandora dell’oligopolio della fragilità.

All’Asp di Palermo, l’assistenza domiciliare (Adi) e le cure palliative sono gestite in regime di convenzione diretta. Tradotto: pochissimi colossi si spartiscono una torta da quasi ventiquattro milioni di euro in rinnovi pluriennali. La fetta più grande (un rinnovo triennale da 10,4 milioni di euro) era andata proprio alla Adi Scarl, presieduta dal corruttore Mario Lupo. Una società legata a doppio filo alla Samot (storica onlus delle cure palliative, fondata dall’ex parlamentare del Movimento 5 stelle Giorgio Trizzino, il cui figlio siede nel CdA), in un sistema a scatole cinesi che restringe il mercato.

Il dirigente Cerrito, in questo schema, era il doganiere della burocrazia: incassava tangenti per eliminare i ritardi e gli intoppi che affliggevano le strutture, rischiando di mandare in crisi l’assistenza. La tangente serviva solo a lubrificare un meccanismo già ben oliato, per mantenere inalterato un feudo da milioni di euro. Un sistema che l’ex manager e attuale assessora Daniela Faraoni aveva provato a scardinare, parlando di introdurre le gare per assicurare maggiore concorrenza e trasparenza. Un tentativo che, da subito, ha suscitato l’opposizione degli operatori storici del settore.

Ma l’episodio della bomboniera, pur gustoso, rischia di distrarci dal quadro più ampio. Quello gestito dagli uomini ombra. L’emblema di questa casta invisibile, che decide chi vince la gara, chi viene nominato e dove finiscono i milioni, è Antonio Maria Sciacchitano, detto Ninni. Un commercialista palermitano che faceva parte di collegi sindacali, consulenze, valutatore dei manager: un curriculum più lungo del piano pandemico. La Procura lo definisce intermediario occulto, un fixer che gestiva appalti truccati per un valore di circa centotrenta milioni di euro. Il tariffario? Diecimila euro per i documenti riservati della gara. Uno schema consolidato: prima la spinta per la nomina, poi il favore, infine la parcella.

A completare il quadro c’è l’inchiesta sulle forniture all’ospedale Civico di Palermo, che ha portato all’avviso di conclusione indagini per chirurghi, cardiologi e funzionari. Il leitmotiv è sempre lo stesso: gare milionarie truccate per favorire aziende fornitrici di presidi sanitari. Soldi e utilità in cambio di favori, come pressioni sui direttori affinché «non arrivasse la risoluzione unilaterale del contratto nonostante significativi inadempimenti». In altre parole: si pagava per far finta che le cose andassero bene, anche se l’azienda fornitrice non adempiva.

E poi c’è Trapani. Che non finisce sui giornali per mazzette nascoste nelle bomboniere – questa volta – ma per qualcosa di molto più agghiacciante: l’attesa che uccide.

Parliamo dell’inchiesta che ha travolto l’Asp trapanese, portando alla luce uno dei più gravi scandali sanitari degli ultimi anni in Sicilia: oltre tremilatrecento esami istologici refertati con ritardi anche di otto mesi, con almeno trecentocinquantadue diagnosi tumorali tardive, diciannove indagati e l’accusa di omicidio colposo.

Il cuore di questo dramma ha un nome e cognome: Maria Cristina Gallo, l’insegnante di Mazara del Vallo considerata la «paziente zero» del caso. La sua denuncia pubblica ha fatto esplodere il caso: il suo referto istologico, fondamentale per definire l’aggressività del suo tumore e la terapia, è arrivato otto mesi dopo l’operazione. Un tempo infinito, che ha permesso alla malattia di avanzare con metastasi.

Al Tribunale di Trapani è in corso l’incidente probatorio per accertare se i ritardi nei referti abbiano, di fatto, compromesso le possibilità di cura o contribuito al decesso di alcuni pazienti.

La prima udienza di questo procedimento ha già mostrato il dramma nella sua forma più brutale: le due pazienti convocate, inclusa Gallo, non sono state ascoltate a causa delle gravi condizioni di salute. La giustizia è costretta a correre contro il tempo, a sentire le vittime prima che muoiano.

Le ispezioni del Ministero e della Regione hanno confermato il quadro: un servizio di Anatomia patologica in piena dissoluzione, con mancanza di personale e sovraccarico di lavoro. Un sistema al collasso, la cui disorganizzazione si traduce in interruzione di pubblico servizio e, potenzialmente, in omicidio colposo.

Se la corruzione è la febbre e l’attesa assassina è l’infezione, la metafora perfetta dello stato della sanità siciliana è arrivata da Caltanissetta, dall’ospedale Sant’Elia.

Lì, pochi giorni fa, un’operatrice sociosanitaria stava scendendo nel blocco operatorio quando la cabina è precipitata dal terzo piano fino al piano -1, a causa del cedimento delle funi. Per liberare la donna, che ha riportato fratture scomposte alle gambe, sono dovuti intervenire i Vigili del fuoco.

Un ospedale, luogo di cura e sicurezza, che crolla su sé stesso. L’ultima vittima è il personale sanitario, il portantino, il più debole della catena, schiacciato non da un errore medico, ma dal cedimento strutturale e dalla mancata manutenzione.

L’ascensore precipitato a Caltanissetta non è un incidente, è una sintesi. È la metafora visiva di tutto il sistema: i piani alti che dettano le regole (e incassano le mazzette), la burocrazia che fa aspettare l’istologico per otto mesi e, alla fine, l’infrastruttura di base – l’ascensore che serve per salvare vite – che collassa, ferendo chi prova a lavorare.

La Procura ha aperto un’indagine per lesioni colpose. L’Asp minaccia di rescindere il contratto con la ditta di manutenzione che aveva fatto i controlli poco tempo prima. In Sicilia ci si limita sempre a punire chi ha fallito, non a riformare il sistema che ha generato il fallimento.

Tra una tangente nascosta in una bomboniera e la caduta libera di un ascensore, l’unica cosa che resta costante è la tragedia umana. E la sensazione che, per il cittadino in cerca di cura, l’intero sistema sanitario siciliano sia, di fatto, un piano inclinato in caduta libera.

Fonye linkiesta.it di Giacomo Di Girolamo

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