Una mostra che vuole essere un gesto di restituzione, una forma di ascolto verso ciò che non ha più voce, ma ancora chiede di essere ricordato
A Palazzo Moncada, nel giorno in cui si celebra la “Giornata in memoria delle vittime nelle miniere”, sarà inaugurata la mostra “I Carusi” di Rosa Salvia.
Un percorso visivo che permette allo spettatore di immergersi nella storia e nelle drammatiche vicissitudini di questi bambini e delle loro famiglie. Un racconto emozionante, struggente, appassionante e, per chi ha vissuto a Caltanissetta, anche a tratti difficile da digerire. Ma sono storie che vanno raccontate per far comprendere il tessuto sociale della nostra terra, le difficoltà vissute dalle famiglie e di come (non) dovremmo trattare i bambini.
Oggi, a documentare la secolare attività estrattiva della produzione dello zolfo in Sicilia, rimangono le imponenti strutture esterne delle miniere Gessolungo-Tumminelli, Trabonella e Trabia-Tallarita, in provincia di Caltanissetta. Silenti e grandiosi, affascinanti, ma capaci anche di turbare profondamente, questi fantasmi inesorabilmente aggrediti dalle ingiurie del tempo sono testimoni di un mondo ormai scomparso per sempre e restituiscono pienamente l’immagine di un lavoro infernale.
Risuonano ancora le voci dei diciannove carusi che il 12 Novembre1881 persero la vita nello scoppio di grisù innescato da una lampada a olio, che scatenò l’inferno nella solfatara di Gessolungo. Nove di loro sono rimasti anonimi, diventando simbolo di un sistema disumano che sfruttava anche i bambini, venduti dai propri genitori ai padroni delle miniere in cambio di un prestito di sopravvivenza, noto come soccorso morto. Bambini che non riuscivano più a vedere la luce del giorno, costretti a camminare in ginocchio, privati dell’infanzia, degli affetti e, infine, della memoria.
E proprio in questa mancanza, in questo vuoto che resta come un’eco tra i ruderi, si apre uno spiraglio di esplorazione intima, che la macchina fotografica a foro stenopeico è in grado di cogliere con una sensibilità tutta particolare.
La fotografia stenopeica, con i suoi tempi lunghi di esposizione e la totale assenza di lenti, non cattura soltanto l’immagine esteriore di un luogo, ma rivela lentamente ciò che si nasconde sotto la superficie visibile. In questo processo meditativo e silenzioso, l’occhio si svuota di fretta e l’anima si sintonizza con il respiro del tempo. Il foro stenopeico, minuscolo e privo di artifici, agisce come un occhio primordiale che filtra non solo la luce, ma anche la memoria, la ferita, il silenzio.
Nell’attesa dello scatto, si entra in una sorta di ascolto interiore. Il paesaggio esterno si mescola con un paesaggio interno fatto di empatia, malinconia, senso di giustizia negata. L’atto fotografico si trasforma così in un rito di rievocazione, un ponte tra ciò che fu e ciò che ancora pulsa nell’invisibile.
Ogni immagine stenopeica realizzata in questi luoghi sembra emergere dal buio come un ricordo che riaffiora. I contorni sfumati, le deformazioni oniriche, l’assenza di nitidezza restituiscono una visione più vera della realtà: una realtà che non è fatta di dettagli, ma di emozioni sedimentate, di atmosfere sospese, di dolore e dignità.
Attraverso questo strumento essenziale, si coglie il paesaggio interiore che quei luoghi evocano: non soltanto il dramma sociale e umano di un’epoca, ma anche il senso profondo della perdita, della memoria collettiva, della resilienza umana; un gesto di restituzione, una forma di ascolto verso ciò che non ha più voce, ma ancora chiede di essere ricordato.
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