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Fino a 71mila euro l’anno per tenere un migrante nel Cpr, ma nei centri eseguito solo il 10% dei rimpatri. Il report di ActionAid

Last updated: 25/10/2024 10:08
By Redazione 147 Views 6 Min Read
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Uno straniero nel Centro per rimpatri di Macomer, in Sardegna, costa 52mila euro l’anno. A Brindisi si sale a 71mila (quasi 200 euro al giorno) perché in due anni il centro non ne ha mai ospitati più di 14. A Torino nel 2023 abbiamo speso 3 milioni, ma il Cpr ha aperto per meno di tre mesi. Va così in tutta Italia, senza eccezioni. Le cifre sono ufficiali, ottenute a fatica dal Viminale e inserite nel report “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” di ActionAid e del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari. Ad emergere è un fallimento che i governi ignorano ma i cittadini pagano. Il risultato? “Si rimpatria di meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva”, dice Giuseppe Campesi dell’ateneo barese, tra i massimi esperti in Italia di detenzione amministrativa e rimpatri.

La detenzione amministrativa nei Cpr è ammessa solo in funzione del rimpatrio degli irregolari, la giurisprudenza è concorde. Nel 2023 sono stati emessi 28mila ordini di allontanamento di cui 4.267 eseguiti, ma solo 2.900 riguardano chi è passato da uno dei dieci centri attualmente operativi, un contributo che vale appena il 10%. Dei costi “esorbitanti” dei Cpr parlava lo stesso Viminale già nel 2013, tanto che si smise di incentivarli. Paradossalmente, l’anno seguente il loro tasso di rimpatrio toccò il 60%. Risultato mai più raggiunto, nemmeno dopo gli investimenti rilanciati dal 2017. L’anno scorso siamo scesi al 44%, mai così in basso ed è solo la media: il centro di Bari ha rimpatriato solo il 16% dei detenuti.

E tuttavia si persevera. Anzi, sono stati allungati i termini di durata massima della detenzione: dai 30 giorni del 1998, nel 2023 si è arrivati a 18 mesi, senza per questo aumentare i rimpatri. Tanto paga pantalone. Il Cpr di Roma Ponte Galeria è costato quasi 6 milioni tra 2022 e 2023. A Macomer spendiamo più per garantire vitto e alloggio alle forze dell’ordine a presidio del centro che per gestirlo. Così a Palazzo San Gervasio, che ad agosto ha registrato l’ennesima morte in un sistema dove solo il 15% delle persone proviene dal carcere “e per lo più non verranno rimpatriate”, dicono i dati: tutte le informazioni sono ora disponibili in formato accessibile e aperto sulla piattaforma Trattenuti.

E poi “confusione amministrativa, mala gestione e sistematica violazione dei diritti: aspetti strutturali del sistema”, denuncia il rapporto. Lo Stato delega la gestione a cooperative e soggetti for profit, anche una multinazionale. A Milano (foto) la gestione del Cpr di via Corelli è stata commissariata e l’Anac ha rilevato la carenza dei controlli della prefettura. Che a Gorizia “dice addirittura di non essere in possesso di dati contabili”, riferisce ActionAid, tra le organizzazioni che hanno impugnato davanti al Tar del Lazio le nuove regole d’appalto, “per le carenze nel tutelare la salute e per l’assenza di standard per la prevenzione di suicidi e autolesionismo”, sollecitando il tribunale amministrativo a sollevare anche una questione di legittimità costituzionale. Uno dei gestori già attivi in Italia ha vinto la gara per gestire il centro di Gjader in Albania, dove oltre a quello che il ministro Piantedosi chiama “trattenimento leggero” c’è anche un Cpr da 140 posti.

Se i costi sono quelli di un hotel, le persone vivono invece “in condizioni peggiori del carcere”, ha sempre ripetuto l’ex garante dei detenuti Mauro Palma, che i Cpr li definiva “vuoti a perdere” e non solo perché funzionano da sempre a capacità ridotta, l’anno scorso con 1359 posti, metà della capienza ufficiale. “Lì le persone cambiano e quando ritornano nelle nostre comunità, come il più delle volte accade, sono peggiorate, anche per l’impiego inquietante di psicofarmaci”, diceva nel 2023. Costosi, inefficaci, inumani. Eppure continuiamo a volerli riempire, tanto da cambiare le leggi per metterci anche i richiedenti asilo. Dal 2018 la loro presenza è passata dal 15,4% al 33,9%. Protagonista del nuovo corso è la Sicilia, come il Fatto ha già raccontato in merito ai respingimenti differiti e alle procedure accelerate. Ma parliamo ancora di piccoli numeri e il meccanismo funziona per lo più con i tunisini, che nel 2024 costituiscono il 13% degli arrivi.

Se l’efficacia non giustifica costi economici ed umani, qual è il senso? “La detenzione in sé: assimilare le persone a criminali”, ragiona Fabrizio Coresi, esperto di migrazione per ActionAid. “Coi richiedenti, poi, si erode un sistema di accoglienza che quando è pieno vale appena lo 0,18% della popolazione italiana”. Perché? “Se sono criminali ci sentiamo legittimati a considerarli invasori, concorrenti nella crisi economica, e questo ci disciplina perché ci distrae da altre questioni. Visti i risultati, possiamo dire che i Cpr non servono a rimpatriare loro, ma a controllare noi”.

Fonte ilfattoquotidiano.it

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