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Dighe vuote, a mezzo servizio o dimenticate (Blufi) e dissalatori arrugginiti. Il grande flop dell’acqua in Sicilia

Last updated: 01/04/2025 5:09
By Redazione 218 Views 8 Min Read
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Collaudati solo 20 invasi su 47. In tutti gli invasi, se si supera una quota di sicurezza fissata dalle
autorità di bacino (inferiore a quella teorica), scatta lo sversamento automatico, bocciati tutti i progetti presentati dalla Regione

«Ho ereditato una situazione disastrosa », dice Renato Schifani. Ereditata da chi: dai due soli governi di centrosinistra durati in totale 7 anni (su 78) o dai 28 di centro e centrodestra dalla Dc in giù? Dettagli.
Ma che sia disastroso il sistema della gestione dell’acqua siciliana (e qui stendiamo un velo sulle perdite delle condotte idriche al 56,1% e delle peggiori fognature d’Italia che servono il 76,5% dei cittadini e a Catania il 35,8%) è verissimo.
Per capire davvero la catastrofe occorre rileggere la cronaca gonfia di illusioni della rivista Nuova Trapani dell’estate 1962: «Le nostre terre riarse, abbrutite dal sole, hanno visto nei primi di luglio la
grazia di Dio piovere su di loro.

Con la semplice pressione di qualche bottone, con il movimento di qualche leva, le cateratte della Diga della Trinità si sono aperte e l’acqua fresca, scintillante, si è avviata dapprima mugghiando e spumeggiando, e poi a poco a poco, ramificandosi negli innumerevoli canali, con un corso sempre più uguale, si è snodata attraverso i campi del comprensorio. Un nastro d’argento scintilla ora lungo ettari di terreno che, dalla creazione del mondo non avevano mai visto se non l’acqua che pochi
mesi all’anno piove dal cielo…».

Un sogno. Destinato a essere tradito.
Sversamenti automatici. Costruita in terra battuta, quella diga benedetta non fu mai collaudata. Mai. E nella scia delle immagini del Vajont del ’63 (tutta un’altra storia) e del terremoto del Belice del
’68 a quindici chilometri, il rischio che cedesse non se lo prese più nessuno. Tanto da svuotare per decenni l’invaso, fino a un via libera ministeriale una ventina di giorni fa, appena superava una certa soglia.
Scelta che fece scrivere con amaro sarcasmo a Giacomo di Girolamo sul giornale online tp24.it che «la Trinità ha dissetato il Mediterraneo».
Non si trattò peraltro di una scelta sporadica. Tutti gli invasi, siciliani e non solo, hanno due quote di riferimento.
Una sui progetti ingegneristici, l’altra una soglia di sicurezza fissata dalle autorità di bacino.
Soglia superata, sversamento automatico.

Decide Giove pluvio. Soprattutto in questi tempi stravolti dal Climate change. Quando ancor
più di un tempo sarebbe indispensabile una manutenzione seria.

Proprio questo, denuncia il commissario straordinario per l ’ emergenza idrica Nicola Dell’Acqua, è il
tasto dolente.
Vale per l’Italia intera, ma in Sicilia a maggior ragione.

Lo dimostrano la selva infestante cresciuta nei canali di sfogo della diga Trinità e certe foto scattate in momenti di recente siccità, le «torri di presa» che misurano le quote e svettano dai bacini in crisi, i razionamenti in comuni come Caccamo che domina con la sua rocca normanna il lago Rosamarina
(«Ma pompare quel che ci serve lì sarebbe costosissimo », sospira il sindaco Franco Fiore) eppure apre i rubinetti soltanto ogni otto giorni.

Dicono tutto le tabelle del monitoraggio quotidiano della stessa Regione Siciliana.
Che marcavano ieri la presenza lì a Rosamarina, a dispetto di vecchi resoconti sull’«enorme capienza» che avrebbe «risolto l’annoso problema dell’approvvigionamento idrico di Palermo», di uno striminzito 14,11% dell’acqua potabile consentita e del 10,30% di quella teorica (100 milioni di metri cubi) del progetto iniziale.

Né rassicurano i monitoraggi su altri bacini.
Come a Scanzano oggi al 30% del livello ipotizzato, Poma (25%), Piana degli Albanesi (22%), Garcia (15%).

E questo a inverno già finito.
Gli impianti dismessi Dati che, dice il commissario, non consentono ottimismi. Anzi. Anche perché ogni periodo di siccità si porta dietro ulteriori problemi.

Basti vedere le bucoliche campagne di Castelvetrano sfigurate da spropositati tappeti di pannelli
fotovoltaici e gigantesche palizzate eoliche. «Eravamo da secoli il granaio della Sicilia», spiega Mariano Ferraro di Legambiente confermando un’inchiesta di Terraevita sul drammatico abbandono dei terreni: «Poi gli agricoltori si sono visti pagare 25 centesimi un chilo di frumento.
Da fame. Va da sé che se ti offrono 50 mila euro l’ettaro per metterci impianti di energie alternative…». Vale per il grano, vale per le vigne.
Eppure, ricorda il funzionario regionale Tuccio D’Urso incaricato nel ’91 di mappare i lavori nel settore idrico, furono spese per l’acqua somme immense: «Solo per elencare gli interventi ho avuto bisogno di 47 pagine». Per un totale di 7.000 miliardi di lire dell’epoca, «non meno di 8 miliardi
di euro senza contare l’inflazione che ne moltiplicherebbe l’importo finale almeno per quattro». Risultato di tanti decenni, sforzi e denari? Quarantasette dighe (solo 20 collaudate) di cui oggi 17 già dismesse.

Più altre abbandonate prima ancora di essere finite dopo avere stuprato il paesaggio.

Come quella di Blufi il cui cadavere cementizio oggi ingombra orrendo le Madonie dopo essere costato ai tempi 260 miliardi di lire più 4 milioni di euro spesi di recente per rispondere a una domanda: che fare ora?
Domanda ricorrente, sull’acqua.
La Regione ci ha provato anche col Pnrr. Una disfatta: 31 progetti presentati, 31 bocciati. «Pregiudizi antimeridionali », hanno strillato da palazzo d’Orleans. No, ha risposto l’Osservatorio Conti
Pubblici della Cattolica: «La bocciatura pare dovuta alla debolezza dei progetti dalla Sicilia e alle carenze della sua amministrazione che a loro volta potrebbero dipendere da politiche poco meritocratiche di selezione del personale».

Traduzione: troppi addetti scadenti assunti per motivi clientelari.
Ruderi (e debiti) Sul tema un paio d’anni fa intervenne pure Matteo Salvini: «Sto lavorando come un matto per recuperare il tempo perso sulle dighe, gli acquedotti e le fognature in Sicilia».
Poi, dice l’archivio Ansa (una manciata di takes generici sull’acqua isolana, 373 sul Ponte di Messina) ha lasciato che se la sbrigassero a Palermo.
Dove Renato Schifani («Non ho fatto manco un giorno di ferie», disse durante l’ultima siccità) ha promesso di investire 290 milioni. Per le attese manutenzioni? No, la precedenza va a 5 dissalatori
(da molti sconsigliati, Cnr compreso) per lui «fondamentali a garantire l’approvvigionamento
idrico e affrontare i cambiamenti climatici».
Tre andrebbero a Porto Empedocle, Trapani, Gela. Dove giacciono arrugginite le salme
industriali dei dissalatori precedenti. Abbandonati anni fa per i costi proibitivi. E intanto
a Gela, per il rudere attuale, stanno ancora pagando 10,5 milioni di debiti l’anno fino
al 2026…

Auguri.

Dal Corriere della Sera

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