“Il diritto internazionale vale fino a un certo punto.”
Con questa frase, pronunciata con disinvoltura in diretta nazionale, il Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani non ha semplicemente inferto un colpo all’immagine diplomatica del Paese: ha rivelato, forse inconsapevolmente, la vera patologia del nostro tempo. Un sistema nel quale la legge non è più fondamento, ma orpello; non più garanzia, ma ornamento; non più limite, ma strumento malleabile al servizio dell’opportunità politica del momento.
E quel “fino a un certo punto” non si arresta ai confini della geopolitica. È un virus che infetta anche le più piccole amministrazioni di borgata, insinuandosi tra le pieghe della burocrazia municipale, nelle stanze dei consigli comunali, nei corridoi del palazzo dove si decide — o, più spesso, si nega — la sorte quotidiana dei cittadini. La verità, nuda e impietosa, è che il diritto, in Italia, vale fino a un certo punto anche entro i nostri confini.
Dietro le scrivanie delle amministrazioni locali si consuma una forma insidiosa e codarda di violenza: il bullismo istituzionale. È quella prassi tossica e perversa con cui certi sindaci, dirigenti o funzionari — sempre ammantati di rispettabilità, sempre pronti a declamare legalità e trasparenza — usano la legge come strumento di intimidazione, di pressione, di vendetta. Negano atti senza motivazione, manipolano norme con interpretazioni arbitrarie, procrastinano procedimenti sino allo sfinimento dei richiedenti. Inventano ostacoli inesistenti per fiaccare la resistenza dei cittadini “non graditi”: coloro che chiedono conto, che non si piegano, che pretendono ciò che spetta loro di diritto.
È questa la mafia grigia, la più subdola e devastante. Quella dei colletti bianchi e delle mani pulite solo in apparenza. Non impugna armi, ma decreti; non spara, ma distrugge lentamente, privando le persone della dignità, del tempo e della fiducia nello Stato. E lo fa dietro lo scudo della legge, fingendo di applicarla mentre la contorce a uso e consumo del proprio tornaconto o delle proprie ritorsioni personali.
La regola non scritta —ma da tutti conosciuta— è sempre la stessa: le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici. Il cittadino che non si adegua diventa un bersaglio. Chi chiede trasparenza si ritrova isolato, schiacciato dal muro compatto del silenzio amministrativo, delle omissioni strategiche, delle finzioni formali. La norma, da presidio di legalità, si trasforma in manganello burocratico; da garanzia di uguaglianza, in strumento di discriminazione e ricatto.
Il potere locale, lungi dall’essere presidio di giustizia, degenera così in una tirannia di quartiere: popolata da funzionari mediocri che si credono onnipotenti, da politici senza scrupoli che si comportano da capibastone, da veri e propri “mammasantissima” non più wannabe, travestiti da amministratori. Questo è il volto più ipocrita e odioso del potere: quello che si proclama istituzione mentre calpesta i diritti fondamentali; che brandisce la legalità come scudo retorico, ma la usa come clava contro i cittadini scomodi; che invoca il rispetto delle regole solo quando serve a colpire i deboli, mai quando dovrebbe misurare se stesso.
La logica è la stessa, solo più piccola nella scala, ma identica nella sostanza. A livello internazionale, si giustifica la forza in nome dell'”eccezione”. A livello locale, si giustifica l’abuso in nome della “procedura farlocca”. Il filo che unisce le due dimensioni è sottile ma solido: l’arbitrio elevato a metodo, l’impunità eretta a prassi, la manipolazione del diritto trasformata in strumento di dominio.
Ogni cedimento istituzionale diventa precedente. Ogni precedente apre varchi. Ogni varco legittima nuove sopraffazioni. E così, lentamente ma inesorabilmente, la legalità diventa un optional, una maschera da indossare nelle cerimonie pubbliche e da strappare nei corridoi del potere.
Tacere dinanzi a tutto ciò significa essere complici. Il diritto non è un’opinione, non è una formula elastica da piegare alle convenienze. È la linea rossa che separa la civiltà dalla barbarie, la democrazia dall’arbitrio, la giustizia dalla prepotenza. Chi ricopre una carica pubblica ha il dovere —morale, giuridico e costituzionale— di esserne custode. Chi ne abusa, anche solo con un atto apparentemente legittimo ma sostanzialmente iniquo, ne è traditore.
Perché la vera illegalità non abita nei vicoli oscuri, ma negli uffici illuminati del palazzo comunale, dove il sopruso viene protocollato, la discriminazione archiviata, la violenza burocratica ammantata di formalità. Chi chiude gli occhi davanti a questo bullismo di Stato ne diventa parte.
Il diritto non “vale fino a un certo punto”: o vale sempre, o non vale affatto. E se le istituzioni dimenticano questo principio, spetta ai cittadini, agli uomini e alle donne libere riaffermarlo con coraggio. Denunciando, resistendo, pretendendo. Perché la legalità non si difende solo nei tribunali, ma in ogni ufficio pubblico, in ogni atto amministrativo, in ogni scelta compiuta da chi esercita potere su altri.
Non si può accettare più che il diritto sia facoltativo. Non si può accettare più che la giustizia sia selettiva. Non si può accettare più che la dignità sia negoziabile.
Io non lo accetto. E voi?
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