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Il governo li chiama Paesi sicuri, ma per i migranti sono l’inferno

Last updated: 11/08/2025 6:31
By Redazione 110 Views 6 Min Read
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Il 65% dei torturati non fugge dal proprio Paese, ma dalla rotta migratoria. Spesso proprio da Paesi che l’Italia dichiara “sicuri”

Contents
Torture di Stato e violenze diffuseI dati clinici contro la propaganda dei rimpatriNon basta curare, serve proteggereSi precisa: la pubblicazione di un articolo e/o di un’intervista scritta o video in tutte le sezioni del giornale non significa necessariamente la condivisione parziale o integrale dei contenuti in esso espressi. Gli elaborati possono rappresentare pareri, interpretazioni e ricostruzioni storiche anche soggettive. Pertanto, le responsabilità delle dichiarazioni sono dell’autore e/o dell’intervistato che ci ha fornito il contenuto. L’intento della testata è quello di fare informazione a 360 gradi e di divulgare notizie di interesse pubblico. Naturalmente, sull’argomento trattato, caltanissetta401.it è a disposizione degli interessati e a pubblicare loro i comunicati o/e le repliche che ci invieranno. Infine, invitiamo i lettori ad approfondire sempre gli argomenti trattati, a consultare più fonti e lasciamo a ciascuno di loro la libertà d’interpretazione.

Non ci sono scorciatoie, non sono possibili semplificazioni. Nel 2023, il 65% delle vittime di tortura seguite dalla Rete di Supporto per le Persone Sopravvissute a Tortura (ReSST) non ha subito violenze nel Paese d’origine, ma durante il percorso migratorio. Spesso nei Paesi considerati “sicuri” dalle autorità italiane ed europee. È la fotografia impietosa del primo report annuale di ReSST, rete nata nel dicembre 2024 dalla collaborazione tra Caritas, MSF, MEDU, CIAC, NAGA e altri soggetti impegnati nell’assistenza a migranti sopravvissuti a trattamenti inumani e degradanti.

Dei 2.618 casi analizzati, solo il 35% ha subito torture nel proprio Paese. Per tutti gli altri, il dolore è cominciato dopo la partenza: lungo rotte che attraversano Libia, Tunisia, Turchia, Marocco, Egitto, Guinea. Con alcuni di questi Stati, l’Italia continua a siglare intese per rimpatri, trattenimenti e respingimenti, invocandone la “sicurezza” normativa. Una contraddizione insanabile, che mina alla base l’intero sistema delle “liste dei Paesi sicuri”, costruite per ridurre il riconoscimento della protezione internazionale e velocizzare le espulsioni.

Torture di Stato e violenze diffuse

A infliggere le torture non sono solo trafficanti o bande criminali. Secondo i dati raccolti, il 28% delle violenze è opera di pubblici ufficiali. Significa poliziotti, soldati, guardie carcerarie. Lo stesso Stato che dovrebbe garantire diritti è spesso l’agente della tortura. E tra le vittime prese in carico dalla rete, il 43% necessita di supporto psicologico specialistico; il 77% vive in condizione di precarietà abitativa e legale. Le violenze documentate – fisiche e psichiche in egual misura – comprendono colpi, ustioni, minacce, isolamento prolungato, abusi sessuali. Le motivazioni principali che spingono alla fuga restano economiche (51%), ma i dati raccolti mostrano chiaramente che la povertà estrema è a sua volta un potente fattore di rischio per subire violenza sistemica.

I dati clinici contro la propaganda dei rimpatri

L’Italia, intanto, continua a promuovere accordi di “cooperazione”, stringendo la mano a governi responsabili di abusi sistemici. Lo ha fatto con la Tunisia, firmando intese per il contenimento dei flussi, mentre i centri di detenzione nel Paese venivano denunciati per maltrattamenti e deportazioni collettive. Lo fa con l’Egitto, da cui arrivano richieste di rimpatrio verso oppositori politici rifugiati. Lo fa con il Sudan e la Libia, teatri di abusi documentati da decine di rapporti internazionali.

Eppure, nonostante le evidenze cliniche, le liste dei Paesi sicuri restano il pilastro delle nuove politiche sull’asilo. In contrasto non solo con il buonsenso, ma anche con l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra, secondo cui «nessuno Stato può espellere o respingere un rifugiato verso un Paese in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate». Il report ReSST dimostra che la minaccia è concreta. Ma viene sistematicamente ignorata.

Non basta curare, serve proteggere

Nel 2024, le otto organizzazioni della rete hanno fornito oltre 14.000 prestazioni sanitarie: consulti psicologici (43%), visite mediche generali (34,2%), supporto legale e sociale. Ma il lavoro clinico, per quanto fondamentale, non basta a restituire dignità e sicurezza a chi è sopravvissuto alla tortura. Serve, come scrive ReSST, «ricostruire fiducia, ascoltando senza giudizio, garantendo percorsi individuali di tutela».

Questo significa, sul piano politico, smettere di trattare la sofferenza come un effetto collaterale del controllo migratorio. Significa superare l’idea che la sicurezza di uno Stato coincida con la disponibilità a trattenere migranti nei propri confini, a qualunque costo. Significa, soprattutto, riconoscere che la tortura non è un’eccezione remota, ma una realtà sistemica e prossima, prodotta da scelte precise. Compresa la nostra.

Per questo la rete chiede all’Italia di abbandonare la logica dei “Paesi sicuri” e tornare al principio della valutazione individuale, unica via per garantire il rispetto del diritto internazionale e, più semplicemente, dell’umanità. Perché ogni corpo torturato racconta una storia. E ogni storia, se ignorata, diventa complicità. Anche se viene negata ad oltranza.

Fonte LANOTIZIAGIORNALE .IT di Giulio Cavalli

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