Sembra ieri quando un coro di voci profetizzava che Donald J. Trump, il presidente magnate, con la chioma bionda platino, sarebbe stato il messia della pace mondiale.
Proprio lui. L’uomo che era destinato a fermare ogni conflitto, a far zittire le armi.
E noi, anzi alcuni di noi, ingenui e sognatori, quasi ci avevano pure creduto, applaudendo ogni sua mossa.
Alla luce di quanto successo, si prova un misto di tenerezza e ilarità, ma anche di rabbia
C’erano i sostenitori più accesi che lo vedevano come l’unico in grado di stringere accordi che altri non potevano fare, di smantellare le tensioni con una stretta di mano, una telefonata, una cena, un aperitivo in salotto, davanti ad un camino acceso o con tweet.
“Trump farà parlare tutti tra loro”, “Finalmente un presidente che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, e porterà la pace”.
Le argomentazioni erano così assurde, diciamo così, che a volte si faticava a distinguere le sue parole da quelle dette in spettacolo di cabaret.
E poi c’erano gli scettici, quelli che si chiedevano se per “pace” intendesse un cessate il fuoco imposto a suon di dazi e minacce.
Ma venivano zittiti, tacciati di non capire la “genialità” del personaggio che pretendeva addirittura il Nobel per la pace, convincendo il Pakistan a proporlo.
La realtà, come spesso accade, ha avuto purtroppo il suo modo brusco di metterci davanti al fatto compiuto.
Anziché portatore di pace, abbiamo assistito a un valzer di ritiri di accordi internazionali, esclamazioni e comportamenti spesso poco felici e una politica interna, come quella sugli stranieri ed estera che a volte sembrava dettata più da un algoritmo impazzito che da una strategia legata alla logica.
La guerra in Ucraina, quella israeliana, le tensioni con l’Iran, il rapporto con la Cina, con l’OMS, il rapporto con la NATO, messo in discussione, come anche con l’Europa.
Da non dimenticare la sua naturale predisposizione a cambiare idea. Un giorno alleato, quello dopo nemico, una politica economica valida la mattina, rinnegata o modificata il pomeriggio.
Questa “volatilità” non ha certo contribuito a costruire “ponti di pace” (cit.) ma piuttosto a far cresce dubbi, incertezze, nuove tensioni e paure.
La pace nel mondo? Può aspettare, senza fissare una data ben precisa, altro che “de escalation”, qui è vera “escalation”.
Si è passati dalla “pace attraverso la forza” alla “forza sperando nella pace”.
Adesso vedremo che succederà. Le strette di mano e le discussioni a quattrocchi sono state foto buone per avere riempito pagine e pagine di giornali e far illudere coloro che credevano in lui come “l’uomo della pace”
L’ultimo annuncio minaccioso “do 15 giorni all’Iran”, è l’ennesima parola rimangiata.
Oggi, ripensando a quelle frasi, non si può fare a meno di sorridere amaramente, pensando anche ai tanti, non solo cittadini ma anche politici italiani, che credevano in lui e alla sua capacita di portare la pace.
La verità è che la pace è un affare molto complicato, che richiede tempo, pazienza, dialogo, compromesso e una buona dose di umiltà, non uno schiocco di dita, come voleva far credere.
Tutte qualità che non sempre si trovano nel manuale del presidente Trump.
Forse, la prossima volta prima di esprimersi, credere e osannare qualcuno, specialmente chi decide le sorti del mondo, bisognerebbe cercare di comprendere bene fatti e personaggi e non lasciarsi abbindolare neanche dai propri referenti politici, che spesso, per non dire sempre, non ne azzeccano una. Loro gli uomini costruttori dei ponti della pace e non solo. Ad Maiora

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