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Sicilia: Quando un’Isola dimentica il Mare. Di Marinella Andaloro

Last updated: 11/06/2025 9:15
By Redazione 289 Views 8 Min Read
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Oltre 1.500 chilometri di costa baciate dal Mediterraneo. Eppure si muore di sete.

Mentre il mondo accelera a velocità quantistica, tra algoritmi, intelligenze artificiali, infrastrutture smart e visioni strategiche, la Sicilia inciampa nella burocrazia.
Puntualmente. Ogni estate. Come un copione già scritto.

I dati ANBI parlano chiaro: milioni di metri cubi d’acqua evaporati, non dal sole implacabile, ma per l’ennesima, chirurgica manifestazione di incompetenza, cristallizzata in sistema.

Dove altri costruiscono infrastrutture intelligenti, in Sicilia è stato eretto il santuario dell’emergenza permanente.

Qui la crisi non è evento eccezionale, è forma di governo.

Altrove, la water governance è strategia. In Sicilia è mito.
Altrove, l’acqua è tecnologia. In Sicilia è burocrazia.
Altrove, è diritto. In Sicilia è leggenda metropolitana.
È concessione stagionale, subordinata a pioggia, santi e appalti.

Le amministrazioni locali hanno trasformato l’acqua –bene comune per antonomasia– in una chimera burocratica.
Questa è l’arte del non-governo elevata a forma d’arte contemporanea.

L’acqua, che la Costituzione definisce “diritto fondamentale”, è diventata concessione divina, privilegio stagionale che dipende dall’allineamento degli astri, dalla purezza degli appalti e dall’umore meteorologico.
La pioggia è stata trasformata da risorsa in nemico pubblico: intasa le condotte vetuste, fa esplodere le tubature, affolla i tribunali.

Ecco, l’unica cosa che funziona è il contenzioso.

Eppure, dal mio osservatorio privilegiato – quello di una siciliana che ama profondamente la propria terra ma che il lavoro porta tra Europa Medio Oriente ed Estremo Oriente, nel mondo del management e delle startup tecnologiche – ho visto esempi luminosi che potrebbero illuminare anche le menti più ottenebrate della politica isolana.

Dubai ha trasformato il deserto in un giardino attraverso partenariati pubblico-privato che fanno sembrare i nostri appalti delle barzellette da circolo ricreativo.
Dubai non si limita a gestire emergenze: progetta il futuro, costruisce Smart cities.

Dubai non ha petrolio nell’acqua, ma ha trasformato l’acqua in oro.
Ha fatto dell’acqua un asset, non un’emergenza.

Il confronto è impietoso. Lo vedo ogni giorno.
È tutto questione di management, quella parola che dalle nostre parti suona ancora come un incantesimo in lingua aliena.

Ancora più illuminante è l’esempio dell’Azerbaigian, paese che i nostri politici non saprebbero nemmeno localizzare su una mappa, che ha recentemente siglato accordi con ACWA Power per impianti di desalinizzazione all’avanguardia.
Il progetto azero utilizza partenariati pubblico-privato per attrarre investimenti diretti esteri in infrastrutture critiche, dimostrando una verità rivoluzionaria: l’accesso alla civiltà non richiede miracoli ma semplicemente competenza amministrativa.

Mentre fuori attraggono capitali e costruiscono infrastrutture, in Sicilia si avviano tavoli tecnici.
Rotondi, infiniti, inutili.

Non da meno è l’esempio turco, dove realtà imprenditoriali come Aquamatch esportano soluzioni sostenibili in 34 paesi e quattro continenti, mentre dalle nostre parti una startup è ancora quella cosa da fighetti “del Nord”.

Ogni volta che torno in Sicilia il contrasto mi lacera il cuore. Altrove trasformano l’acqua in business globale, in Sicilia trasformano ogni inverno in epopea di tubi scoppiati, e ogni estate in cisterne in bellavista, autobotti in processione e bollettini di guerra per annunciare se e quando l’acqua arriva.

Obiettivo che evidentemente richiede studi pluriennali e commissioni di esperti.

La gestione pubblica isolana si fonda su un principio scientificamente testato: “Tanto prima o poi piove.”
Questo è il mantra siciliano per eccellenza che resta comunque immutato.
Questa perla di saggezza meteorologica ha guidato decenni di non-pianificazione, trasformando la gestione idrica in una forma di roulette climatica degna dei più raffinati frequentatori di Montecarlo.

Mentre l’Azerbaigian firma contratti per dissalatori avveniristici, la Sicilia affida il destino idrico alla meteorologia, delegando a Santa Rita quello che altrove viene gestito dall’ingegneria.

Ma attenzione: Il problema non è solo la siccità.
È la fame di potere nascosta sotto ogni emergenza. È un sistema. Perfetto nella sua perversione.
L’emergenza è normalità, il disastro è tradizione.
La crisi diventa affare.

Ogni perdita d’acqua è un’occasione d’oro per qualcuno. Un business garantito per pochi. Sempre gli stessi.

Soluzioni? Esistono. Solo che costano: competenza, visione, responsabilità. Valori sgraditi a chi si arricchisce nel pantano. Perché risolvere oggi un problema che si può rimandare sine die e garantire fondi senza soluzione di continuità?

Eppure, qualche proposta rivoluzionaria per gli standard siciliani potrebbe ancora salvare la situazione.
Idea folle: e se si copiasse con umiltà quello che funziona altrove?

Dubai ha creato hub tecnologici che attirano cervelli da tutto il mondo; la Sicilia potrebbe iniziare attirandoli almeno dal resto d’Italia.
Baby steps, come si dice in quei paesi dove l’innovazione non è una parolaccia.

Il modello azero dimostra che si può attrarre capitale privato per infrastrutture pubbliche senza svendere il patrimonio nazionale.
Ma servirebbe una classe dirigente capace di leggere un business plan senza scambiarlo per propaganda elettorale.
Un’impresa titanica visti gli standard correnti.

La vera eccellenza siciliana, però, resta quella dell’immobilismo creativo: l’abilità di rimanere fermi facendo finta di muoversi.

Mentre paesi considerati “emergenti” emergono davvero, noi pratichiamo l’arte del “sommergenti”, quella disciplina sopraffina che consiste nell’affondare lentamente mantenendo sempre la testa appena sopra il livello di guardia per non far scattare commissariamenti.

Esiste infatti una particolare patologia amministrativa che colpisce esclusivamente le latitudini siciliane: la capacità di regredire mentre si dichiara di progredire. È un fenomeno che meriterebbe studi antropologici approfonditi, una forma di evoluzione darwiniana al contrario che seleziona sistematicamente l’inefficienza come carattere dominante.

La vera tragedia non è la scarsità d’acqua – quella è tecnicamente risolvibile con le tecnologie disponibili oggi. La vera tragedia è la mancanza di vergogna di fronte all’evidenza che paesi considerati “meno sviluppati” ci superano quotidianamente in tutto ciò che riguarda innovazione, efficienza, visione strategica, capacità di attrarre investimenti

Da siciliana che ama visceralmente questa terra posso dire che manca la capacità di riconoscere che non è colpa del fato o del clima o del governo precedente, ma della nostra ostinazione nel ripetere gli stessi errori sperando in risultati diversi.

Mentre si coltiva l’arte della ricerca del colpevole di turno, il vero deserto avanza inesorabile. Quello culturale e istituzionale che trasforma ogni risorsa in spreco, ogni possibilità in rimpianto, ogni futuro in nostalgia.

È arrivato il momento di invertire la rotta e trasformare il know-how dell’emergenza in know-how dell’innovazione, operazione che richiederebbe solo un piccolo miracolo di trasformazione culturale: sostituire la mentalità emergenziale con quella progettuale.

È ora di smettere di raccontarci come “speciali” e cominciare a essere semplicemente normali.

Nella terra di Archimede abbiamo dimenticato la leva, preferendo il peso morto.
Ma il mondo non aspetta. E l’acqua, se non la gestisci, evapora.
Come la fiducia. Come la speranza.

La Sicilia sta morendo di sete. Ma non solo d’acqua.
Di rispetto. Di giustizia. Di verità.

Serve un piano. Serve visione. Servono scelte coraggiose e persone oneste disposte a rompere il muro dell’incompetenza e dell’omertà.

Non si tratta più di salvare una stagione agricola o un raccolto. Si tratta di salvare un popolo, una terra, un’identità.
Si tratta di salvare la Sicilia da se stessa.

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