Vi sono luoghi che non insegnano attraverso la mera bellezza, ma attraverso la civiltà. La regione fiamminga, ove ebbi modo di soggiornare durante il mio Erasmus, appartiene a questa nobile categoria. Lì, tutto, dalle piste ciclabili tracciate con geometrica precisione ai treni che rispettano il minuto, dai caffè silenziosi alle biblioteche costantemente animate, obbedisce a una regola semplice e, al contempo, profonda: il rispetto. Non imposto dall’alto, bensì interiorizzato come abitudine collettiva.
Quando a Gent il tram arriva alle 8:14 e non alle 8:16. Quando la pista ciclabile ha la precedenza e nessuno osa invaderla. Quando in biblioteca nessuno risponde al telefono perché esiste un’area apposita.
L’efficienza non è ostentazione di virtù, ma forma di convivenza civile; il tempo non scorre più veloce, ma più giusto: nessuno lo spreca, poiché tutti lo considerano bene comune.
Durante quell’anno ho appreso che l’efficienza non è freddezza e che l’innovazione non germoglia da slogan altisonanti, ma dalla disciplina. È rispetto per l’altrui tempo, per il lavoro ben compiuto, per la comunità che si costruisce giorno dopo giorno.
Quando un professore belga ti riconsegna il tuo paper corretto dopo esattamente sette giorni, ogni volta, sta insegnando molto più della materia: sta mostrando che la parola data ha valore.
Una forma di civiltà che, a chi proviene dall’Italia, può apparire quasi straniante.
Abbiamo la scintilla del genio, ma spesso si smarrisce nei labirinti della burocrazia. Abbiamo dato i natali a Enrico Fermi e Rita Levi-Montalcini, ma i nostri ricercatori emigrano.
Possediamo l’immaginazione di Leonardo, ma siamo imprigionati nella macchina amministrativa di Kafka.
Eppure le Fiandre non sono un modello distante: sono il monito vivente di ciò che l’Italia fu. Nel Rinascimento, le città che vivevo: Anversa, Bruges e Gent furono fari di commercio e di pensiero, luoghi in cui l’audacia era virtù e il merito contava più del lignaggio, ben prima che la parola “meritocrazia” fosse coniata. Erano i laboratori di un’Europa nascente, dove scienza, arte e finanza dialogavano in armonia.
Così era anche l’Italia dei suoi secoli d’oro: Firenze, Venezia, Genova, Milano, nomi che evocano una civiltà in cui la visione si univa alla concretezza, l’arte all’impresa, l’estro alla competenza. Qui si costruivano astrolabi per navigare il mondo, si scrutavano le stelle con il cannocchiale di Galileo, si innalzava il Duomo che ancora oggi sfida il cielo.
Poi, lentamente, ci siamo adagiati sulla memoria di quella grandezza, scambiando la tradizione per immobilità.
Oggi abbiamo un sistema dove l’ingegno sopravvive non grazie alle regole, ma malgrado esse. Dove la meritocrazia è eccezione, la pressione fiscale cresce, i servizi vacillano, e chi osa innovare deve lottare più contro la macchina amministrativa che contro la concorrenza.
Eppure basterebbe poco per mutare rotta: riscoprire il coraggio di scegliere la competenza come orgoglio, come virtù civile.
L’Italia, oggi, riflette in sé la crisi dell’intera Europa: brillante ma stanca, intelligente ma insicura, bellissima ma esitante sul proprio destino. Siamo nel pieno di una parabola discendente. Regoliamo invece di creare, sovvenzioniamo invece di innovare.
Proteggiamo rendite di posizione invece di liberare energie.
Non ci manca la sostanza: ci difetta il coraggio. Abbiamo avuto un passato che ha illuminato il mondo, ma ci manca la convinzione di poterlo ancora fare. Da popolo che costruiva ponti tra civiltà, siamo divenuti un popolo che fatica a collegare ieri e domani.
E la Sicilia, in tal senso, appare come il laboratorio perfetto della decadenza italiana: una terra di straordinario potenziale, resa inerme da inerzie antiche. Culla di civiltà che ha visto greci, romani, arabi e normanni, oggi è ultima per PIL pro capite in Italia. Possiede quattro aeroporti ma collegamenti ferroviari e strade interne degni del Dopoguerra. Una terra di straordinario potenziale, resa inerme da inerzie antiche e clientele contemporanee.
Dalle Fiandre ho appreso che la vera forza di una comunità risiede nell’equilibrio tra memoria e progetto. Lì la competenza più delle appartenenze non è utopia, ma metodo. L’efficienza, in quel contesto, non è una gabbia burocratica, ma un atto di gentilezza sociale: il modo con cui la comunità onora se stessa.
Forse la prossima rinascita europea non sarà questione di tecnologia, bensì di mentalità.
Dobbiamo tornare a credere nel merito come strumento di equità, nel dovere come fondamento della libertà, nella coerenza tra parola e azione quale architrave dell’etica pubblica.
Non serve un leader provvidenziale né una riforma miracolosa.
Serve ricucire il tessuto civile di un Paese piegato dalle raccomandazioni, dove il favore vale più del merito e l’obbedienza più della competenza.
È tempo di ritrovare la dignità di un popolo che non mendica favori, ma pretende giustizia.
Ricostruire significa restituire valore al lavoro, spazio alla competenza, rispetto al merito.
E se ancora esiste un popolo capace di stupire il mondo, è il nostro, quando tornerà a scegliere la verità alla convenienza:
“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.”
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