Riarmo. Pensioni, Guardia costiera e Protezione Civile portano le uscite al 2% del Pil, ma ora il nuovo obiettivo dell’Alleanza punterà al 3,5%
Come annunciato da settimane dal ministro dell’economia Giorgetti e confermato giovedì scorso dai suoi colleghi di governo Crosetto e Tajani, al vertice Nato del 25 e 26 giugno l’Italia attesterà di aver raggiunto l’obiettivo Nato di una spesa pari al 2% del Pil nella Difesa. L’intesa sul punto dovrà poggiare su un’estensione dei confini delle voci di bilancio considerate:
per ora il Governo non ha dato informazioni ufficiali, ma i radar inquadrano le pensioni agli ex militari comprese nel bilancio dell’Inps, le spese per i programmi in aerospazio e alcuni fondi per la protezione civile e per la Guardia Costiera.
Questi conti abbraccerebbero circa 42 miliardi e la mossa, insieme ai 35 miliardi aggiuntivi destinati con l’ultima legge di bilancio alla Difesa dal 2025 e 2039 (11,8 fra quest’anno e i prossimi due) sono un primo passo nel percorso di adesione agli obiettivi dell’Alleanza: percorso che però si annuncia lungo e impegnativo, perché poggiato su un terreno più sostanziale che contabile.
Le anticipazioni fornite dal segretario generale della Nato Mark Rutte puntano a un nuovo livello di spesa pari al 3,5% del Pil, a cui aggiungere un altro 1,5% da destinare alla sicurezza cibernetica per tamponare quegli attacchi digitali che sempre più spesso affiancano e arricchiscono le minacce degli eserciti in divisa. Quel punto e mezzo di prodotto aggiuntivo, ai valori correnti si traducono per l’Italia in oltre 33 miliardi all’anno, al netto delle oscillazioni sui criteri di calcolo del Pil a prezzi costanti e del tasso di cambio euro/dollaro. Il salto non sarebbe immediato, ovviamente, perché l’orizzonte tracciato nel vertice di giugno sarà decennale. Ma viste le cifre in gioco, il dossier va gestito da subito, soprattutto in un Paese in cui il bilancio è assai irrigidito dal rientro dal deficit e dal debito cumulati negli anni della pandemia.
Come spiegato giusto giovedì scorso dalla Ragioneria Generale, infatti, nella gabbia costruita dal
Piano strutturale di bilancio previsto dalla nuova governance economica Ue ogni «nuova o maggiore
spesa» programmata dai ministeri andrà compensata da tagli equivalenti in altre voci del loro bilancio.
E in un’ottica più generale, lo stesso principio andrà seguito dai Governi nella costruzione delle manovre dei prossimi anni.
Un’eccezione in realtà c’è. Ma anche in questo caso nasce nelle regole contabili e non tocca la sostanza finanziaria, e proprio per questa ragione non accende particolari entusiasmi al ministero dell’Economia. Il piano Readiness 2030, come recita l’etichetta eufemisticamente messa al programma di riarmo comunitario, consente agli Stati membri di scorporare dai calcoli sul rispetto
degli obiettivi fiscali Ue investimenti per la Difesa fino all’1,5% del Pil.
L’analogia con lo sforzo aggiuntivo che dovrebbe essere chiesto dal nuovo obiettivo Nato è suggestiva all’apparenza, ma lo diventa molto meno quando si passa agli aspetti pratici.
Perché lo “scorporo” vale nel recinto delle verifiche europee sul rispetto delle traiettorie di spesa concordate nei Piani strutturali di bilancio, ma non sul terreno più ampio del deficit effettivo che va finanziato con il ricorso del Tesoro ai mercati.
Sono nate da qui le considerazioni dell’ex premier Mario Draghi, quando mercoledì scorso al summit portoghese di Cotec Europa ha detto che «l’esenzione di categorie di spesa pubblica dalle regole di bilancio può arrivare solo fino a un certo punto».
E dal momento che quel «punto» non basta ad aiutare davvero i Paesi ad alto debito, Giorgetti all’ultimo Ecofin ha chiesto di esaminare l’idea di estendere l’arco temporale di utilizzo della Recovery and Resilience Facility per coprire anche gli investimenti europei nella Difesa. «È un’ipotesi che avevamo valutato e scartato», ha detto il commissario Ue all’Economia Valdis Dombrovskis per chiudere (almeno per ora) una strada che peraltro chiederebbe l’accordo di tutti i Paesi membri: compresa per esempio la Germania, che ha appena lanciato il maxi piano di investimenti con i margini di bilancio nazionale, a Berlino molto più ampi che a Roma.
Il bivio è decisivo sia per la difesa europea, oggi frammentata sul piano della produzione come su quello del coordinamento strategico, sia per le prospettive delle finanze pubbliche nazionali. Scorporo o meno, un aumento del disavanzo per la Difesa alzerebbe infatti il livello del deficit e del
debito su cui andrà impostato il prossimo Piano di bilancio, che di conseguenza chiederebbe uno sforzo di risanamento più intenso rispetto a quello che si avrebbe dopo aver rispettato il Piano attuale. E al netto delle regole Ue, ha avvertito Bankitalia, «le maggiori erogazioni per la difesa avrebbero almeno in parte carattere strutturale, il che suggerisce di finanziarle anche con risparmi su altre
voci di spesa o aumenti delle entrate».
Di fronte a queste urgenze, storiche e finanziarie, le peripezie contabili rilevano fino a un certo punto.
Come ha dimostrato nelle scorse settimane la tensione nemmeno troppo sotterranea del ministro della Difesa sulla necessità di spingere sull’impegno nel settore.
Da il Sole 24 Ore
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