Nella nostra società, l’esposizione mediatica e la visibilità pubblica sono diventate valute preziosissime
Dai social network a tutto il resto, sembra che ogni parola, ogni gesto, debba essere misurato in base al suo potenziale di generare consenso, like e applausi.
Questo meccanismo, apparentemente innocuo, ha un effetto perverso perchè crea una selezione artificiale dei temi di cui si parla.
Si preferisce discutere di ciò che fa stare tutti d’accordo o di argomenti lontani da noi e che soprattutto non creano frizioni, insomma si approda in porti lontani al riparo dai venti locali.
È la retorica del consenso, del sentirsi inattaccabili, i migliori, dove la parola non è più strumento di pensiero, ma merce di scambio per l’approvazione.
Il risultato è che la discussione che si genera assomiglia sempre più a un salotto dove si parla del tempo, di calcio, di cultura, di musica etc, in realtà lontane da noi..
Tutti temi legittimi, certo, ma che spesso diventano un diversivo per evitare le questioni realmente urgenti e scomode, quelle magari locali che richiederebbero una presa di posizione chiara, un rischio, una presa di coscienza.
Se tacere su un argomento è già grave, ancora più preoccupante è la reazione che si scatena quando qualcuno decide di rompere il silenzio.
Chi osa affrontare un tema che non “fa fare bella figura”, che non genera immediatamente consensi o che mette in discussione lo status quo, viene spesso emarginato o, peggio, ridicolizzato e offeso.
Le voci dissonanti vengono sminuite, il loro impegno minimizzato, il numero di persone che condividono le loro battaglie viene volutamente ridotto a un numero insignificante.
Questa strategia non è casuale. È un modo per mantenere l’equilibrio di un sistema che si basa sul non detto, sulla convenienza e sulla superficialità.
Si arriva a criticare ferocemente chi difende una causa solo perché non rientra nella narrazione positiva del momento, ignorando che la dignità e la coerenza dovrebbero avere la precedenza sulle logiche di convenienza.
Dietro questa paura di prendere posizione si nascondono motivazioni diverse, ma spesso riconducibili a una sola: la dipendenza da un “padrone”.
Non si tratta necessariamente di un’entità fisica, ma di una logica di potere, di uno “sponsor”, o anche semplicemente solo di una percezione di come “si dovrebbe” parlare per non perdere visibilità agli occhi di chi comanda e annientare chi va contro, per rimanere magari gli unici sulla piazza.
L’imperativo non è più la verità o l’importanza di un tema, ma l’ordine non scritto di “evitare di andar contro”.
Ci si convince che certi argomenti siano troppo “caldi”, che la gente non sia pronta o che non deve sapere, che sia meglio lasciare le cose come stanno per non scatenare polemiche che danneggiano chi invece vive solo di “belle notizie”.
Ma si dimentica innanzitutto il proprio ruolo, quello che si critica ad altri e il fatto che proprio la polemica, intesa come confronto dialettico, è il motore del progresso e del cambiamento, ovviamente in postivo.
La storia, chi ha studiato dovrebbe saperlo, ci insegna che i cambiamenti più significativi sono nati proprio dalla lotta e dalla difesa delle idee più scomode.
Dovremmo ritrovare il coraggio di trattare tutti i temi importanti, senza esclusioni, ma alcuni preferiscono il quieto vivere e pensare al proprio tornaconto anzichè alla collettività.
Non esistono argomenti di serie A e di serie B, la giustizia sociale, la correttezza, l’onestà, i diritti umani, la trasparenza e la chiarezza politica, sono tutte facce di una stessa medaglia, che meritano di essere esaminate con la stessa attenzione ed impegno, anche se non generano una standing ovation immediata.
La responsabilità di un dibattito pubblico sano e costruttivo non è solo di chi lo anima, ma anche di chi lo ascolta.
Dobbiamo imparare a riconoscere la differenza tra la ricerca del consenso facile e la battaglia onesta per un’idea.
Non possiamo permetterci di farci abbagliare dalle luci, ignorando le ombre.
Sostenere chi si batte per ciò in cui crede, questo andrebbe fatto, anche se la sua causa non è “di moda” o l’argomento riguarda pochi, spesso gli “indifesi”, e comprendere che la grandezza di una lotta non si misura dal numero di like, ma dalla sua onestà e dalla sua importanza per il bene comune.
In fin dei conti, la vera statura di una persona, nel dibattito pubblico come nella vita privata, non si misura neanche nel numero di applausi che si raccolgono, ma dal coraggio di esprimersi con onestà e libertà.
Si è davvero “migliori” solo quando si dimostra di poter parlare liberamente di ogni argomento, anche di quelli più scomodi e impopolari, senza calcoli di convenienza o di consenso e non quando la propria autorevolezza e visibilità dipendono anche dall’essere “ammanicati” e di conseguenza si ottengono “favoritismi” di vario genere, che gonfiano la bolla del proprio ego e successo senza che vi sia un contenuto reale a sostenere il tutto.
La vera libertà di parola è un segno di forza, non di debolezza, ed è l’unica base su cui può nascere un dibattito pubblico onesto, maturo e, in definitiva essere veramente i migliori, lasciando ai loro turpuliqui coloro che stupidamente credono di esserlo sostenuti dai loro lusingatori seriali. Ad Moiora

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