Gli ayatollah non possono avere la bomba atomica. Questo il mantra con cui gli Stati Uniti e i Paesi europei giustificano il fatto di essersi schierati a favore dell’aggressione di Israele all’Iran. Così come gli israeliani parlano di questo attacco come “la mossa per prevenire la nostra distruzione” (cfr Danny Danon, ambasciatore di Israele all’Onu).
Vediamo di scorporare le due posizioni. Su questo tema, pur con tutta la necessaria comprensione per le giustificate preoccupazioni del popolo di Israele a fronte di un avversario che non ha mai smesso di auspicare la sparizione dello Stato ebraico, dei dirigenti israeliani non ci si può fidare.
La loro idea di sicurezza nazionale è basata sull’insicurezza dei vicini. E Benjamin Netanyahu già dieci anni fa, tenendo un discorso a un Congresso americano plaudente, giurava e spergiurava che l’Iran era a un millimetro dalla bomba atomica.
Poche settimane dopo Barack Obama avrebbe firmato con l’Iran l’accordo sul nucleare che prevedeva il ritiro delle sanzioni contro Teheran, mentre l’Iran accettava di eliminare le riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre di due terzi le sua centrifughe a gas per tredici anni.
Accordo che funzionava per tutti i protagonisti dell’epoca, ovvero i Paesi del P5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito più la Germania), la Ue e l’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu. Netanyahu era l’unico a criticare l’accordo. L’unico fino all’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che nel 2018 disdisse unilateralmente l’accordo.
E poi ci sono i Paesi europei che, come si diceva, lasciano cadere questa specie di oscuro monito sulla bomba iraniana.
Su questo tema, però, c’è una sola cosa che fa testo: le due relazioni che l’Aiea ha desecretato nei giorni scorsi. Relazioni che, peraltro, sono state approvate dal board dei governatori non certo all’unanimità: 19 sì, 13 astenuti, 3 no.
Queste relazioni (che si possono leggere qui) in nessun passo parlano di un clear and present danger a proposito di una bomba atomica iraniana. E questo è bene saperlo.
Ciò non vuol dire che gli ispettori dell’Aiea non muovano critiche anche severe e preoccupate al comportamento degli iraniani.
Ecco le principali: scarsa collaborazione ai controlli dell’Aiea, che peraltro rispondono ad accordi internazionali; movimenti sospetti in diversi siti nucleari, che agli occhi degli ispettori sono risultati “sanitarizzati” (ovvero ripuliti e resi innocenti) prima delle loro ispezioni; e soprattutto la presenza di 166,6 chili di uranio arricchito al 60% (per la bomba l’uranio deve essere arricchito all’85%; Little Boy, la bomba sganciata su Hiroshima, conteneva 64 chili di uranio), caso unico al mondo tra i Paesi che non detengono l’arma nucleare.
Un’operazione di regime change
A quali conclusioni possiamo dunque arrivare? La prima è che certamente la condotta delle autorità iraniane è stata sospetta e, insieme con le ripetute dichiarazioni di non voler rinunciare all’arricchimento dell’uranio, autorizzava a pensare che volessero arrivare a una quantità di uranio arricchito tale da consentire loro, nella migliore delle ipotesi, una trattativa da una posizione di maggiore forza. Nella peggiore, di arrivare in futuro a costruire una bomba nucleare.
La seconda conclusione è invece questa: l’attacco israeliano non è la reazione a un pericolo ma una guerra preventiva rispetto a un pericolo ipotetico, forse probabile, ma non presente.
Identica alla guerra preventiva di George Bush contro le armi di distruzione di massa dell’Iraq nel 20023, con l’unica (non secondaria) differenza che Bush aveva raccontato balle in toto mentre Netanyahu, dopo anni e anni di balle totali, adesso qualche giustificazione può accamparla.
In più ci sono le modalità di questo attacco, che non ha preso di mira solo gli impianti nucleari ma anche le infrastrutture essenziali della difesa iraniana ed è stata accompagnata dalla strage sistematica dei vertici militari, politici e scientifici del Paese.
Una vera operazione di regime change, di nuovo molto simile all’invasione anglo-americana dell’Iraq.
È vero che l’Europa, come protagonista nelle grandi crisi internazionali, non ha nulla da dire, non esiste. Ma accampare inesistenti urgenze per giustificare l’ennesima guerra preventiva, avendo tra l’altro alle spalle gli splendidi risultati della campagna irachena, è quasi patetico.

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