Aveva combattuto e vinto il terrorismo e non poteva che essere l’uomo giusto per contrastare Cosa nostra.
Mandato a Palermo da prefetto dopo aver sconfitto il terrorismo, il militare non ottenne mai i poteri speciali che gli erano stati promessi per contrastare Cosa nostra e venne lasciato solo. Con lui morirono la moglie e l’agente di scorta Domenico Russo. Oggi alle 9.30 la commemorazione.
Gli promisero poteri speciali, quando lo mandarono da prefetto in Sicilia – dove era peraltro già stato nei decenni precedenti – ma poi lo lasciarono solo.
E’ così che la sera del 3 settembre 1982 il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa venne assassinato con raffiche di kalashnikov assieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, e al suo agente di scorta, Domenico Russo.
Era arrivato a Palermo da appena cento giorni (come ricorda emblematicamente il film di Giuseppe Ferrara del 1984), quando la mafia rispose in maniera inequivocabile allo Stato che cercava di combatterla.
Una strage, quella di via Isidoro Carini, che 42 anni dopo sarà ricordata
anche alla presenza del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.

“Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”, questo recitava un cartello lasciato sul luogo dell’eccidio da cittadini che – in una città dilaniata e insanguinata dalla guerra di mafia – credettero davvero che il generale potesse cambiare le cose. Nello stesso posto, alle 9.30, si terrà la consueta commemorazione e saranno deposte corone di alloro.
Saranno presenti, oltre che il ministro, anche i vertici dell’Arma, il comandante interregionale Sicilia e Calabria Giovanni Truglio, il comandante della Legione Sicilia, Giuseppe Spina, e il comandante provinciale, Luciano Magrini.
Alle 12, poi, all’omaggio parteciperanno anche i bambini che lasceranno dei fiori sul cippo che ricorda il sacrificio di Dalla Chiesa al Cassaro, proprio di fronte alla caserma dove si trova il Comando della Legione.
I giorni che seguirono il delitto furono di aspra polemica. Durante i funerali nella chiesa di San Domenico la folla protestò contro i politici – che di fatto non avevano messo nelle condizioni il generale di lavorare – risparmiando solo l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini.
Una delle figlie del generale, Rita, fece togliere le corone di fiori inviate dalla Regione e il cardinale Salvatore Pappalardo pronunciò un’omelia passata alla Storia: “Mentre a Roma si penda sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici – tuonò – e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo”.
Dieci giorni dopo il Parlamento approvò la legge Rognoni-La Torre con cui venne introdotto il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni.