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La memoria violata.Palermo, 23 maggio: cronaca di uno strappo alla dignità collettiva. Di Marinella Andaloro

Last updated: 26/05/2025 7:54
By Redazione 281 Views 6 Min Read
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Il 23 maggio scorso, a Palermo, nel giorno in cui si ricorda Giovanni Falcone, è accaduto qualcosa di profondamente grave.

Le istituzioni hanno anticipato il minuto di silenzio, sottraendolo al momento più carico di significato e privandolo della sua forza pubblica e condivisa.

Un gesto che, dietro il pretesto del protocollo, ha rivelato un’intenzione evidente: evitare il confronto con la piazza, con quel corteo che stava per raggiungere l’Albero Falcone scandendo a gran voce: “Fuori la mafia dallo Stato.”

Era dovere morale e civile attendere quei cittadini che, a pochi metri, stavano arrivando. E invece, alle 17:58, il palco era già vuoto. Le autorità si erano dileguate frettolosamente a bordo delle auto blu, lasciando dietro di sé un silenzio svuotato, amputato del suo destinatario più vero: la cittadinanza.

Qualcuno parlerà di prudenza, altri invocheranno motivi di ordine pubblico.

Ma la realtà è più dura: quel gesto ha di fatto escluso la cittadinanza dal cuore della commemorazione. Quel minuto, anticipato e consumato nel vuoto, si è trasformato in un atto burocratico, freddo, escludente. Una formalità senz’anima.

A chi appartiene oggi la memoria? Chi può dirsi legittimato a custodire l’eredità civile lasciata da chi ha sacrificato la propria vita per liberarci dalla mafia? Se non a chi la onora ogni giorno con impegno, coerenza, dissenso attivo?

Questa domanda non è retorica. È ciò che mi spinge a scrivere. Non per celebrare un rito svuotato, ma per denunciarne la deriva.

Oggi dissentire significa diventare eretici della memoria, isolati, scomodi, emarginati nella propria stessa comunità.

Ma io lo rivendico, questo esilio. Colpevole di voler spezzare il tabù dell’intoccabilità e di smascherare certi ciarlatani che brandiscono la legalità solo quando conviene.

Da troppo tempo la memoria è diventata spettacolo. Offerta alle telecamere, incasellata in liturgie mediatiche, ridotta a cerimoniale da chi si è auto-investito del diritto esclusivo di rappresentarla. In nome della cosiddetta “educazione alla legalità”, si è consolidata una prassi che, sotto l’apparenza della sacralità civile, cela derive opportunistiche e narcisismi istituzionali.

Ma la memoria così raccontata ha perso la sua forza educativa, il suo potenziale rivoluzionario. È diventata rappresentazione, non azione. Apparenza, non verità.

Dietro le scenografie del ricordo si erge un altare su cui si consumano carriere, si gonfiano ego e si riproducono dinamiche di potere. Nel frattempo, l’etica pubblica si sgretola. Corrotta, infiltrata, svenduta. Travolta da intrecci sempre più fitti tra politica e crimine organizzato. Quando già, in troppi casi, non siano la stessa cosa.

Siamo stanchi. Stanchi di commemorazioni che usano il sacrificio dei nostri martiri come copertura per nascondere verità scomode.

Stanchi di cerimonie che, sotto la maschera del rispetto, finiscono per legittimare proprio quei poteri che Falcone e Borsellino avevano osato sfidare.

Stanchi di indignarci ogni anno, mentre le domande vere restano senza risposta.

E chi ha il coraggio di farle viene messo a tacere. O lasciato solo.

Rispetto per le istituzioni non significa obbedienza cieca né deferenza verso chi le ha svuotate o piegate a interessi inconfessabili. Significa pretenderne la pulizia, denunciarne le degenerazioni, esigere verità da quella parte sana dello Stato che ancora può -e deve- reagire. Finché ciò non accadrà, ogni commemorazione resterà una gelida messinscena. La memoria non è idolatria del cerimoniale. È azione. È vigilanza. È pretendere una classe dirigente onesta, degna di difendere i valori della legalità. E oggi, con evidenza, questa classe non governa né il Paese, né i suoi piccoli comuni. Hanno colonizzato il linguaggio della legalità, si sono ammantati di intoccabilità. Hanno amministrato la memoria con la stessa logica clientelare con cui si spartiscono incarichi e visibilità. Hanno trasformato Falcone e Borsellino in icone da esibire.

Purché silenziose, purché inoffensive.Ma il 23 maggio qualcosa si è incrinato. I volti e le voci del corteo che si avvicinava non erano quelli di una folla distratta, ma di cittadini lucidi, consapevoli, stanchi di essere spettatori.

La verità è che non siamo più soli nel nostro dissenso. La nausea per la ritualità ipocrita, l’indignazione per l’uso strumentale del sacrificio, la rabbia contro l’appropriazione indebita della memoria stanno finalmente emergendo. È un segnale. Un sussulto. Il popolo comincia a rigettare il teatro dell’ipocrisia. E da questo sdegno -non dalle parate- può nascere una nuova domanda di verità, giustizia, democrazia. Una parte viva del Paese -e della Sicilia- non ci sta più. Non accetta che la memoria venga manipolata, sterilizzata, riciclata come carburante per campagne elettorali, carriere o show social.

Oggi non provo più solitudine. Sento forza. E orgoglio. Orgoglio di appartenere a una terra che, pur ferita, sa ancora riconoscere l’autenticità. Sa smascherare l’ipocrisia. E, nei momenti cruciali, sa scegliere da che parte stare.

Essere siciliana, oggi, mi riempie di fierezza. Perché so di dare voce a ciò che molti pensano. E che sempre più persone -finalmente- trovano il coraggio di dire.

Hanno anticipato il silenzio, sì. Ma non hanno spento le voci. Hanno rubato un minuto. Eppure -senza volerlo- hanno acceso una moltitudine di coscienze.

“Li avete seppelliti ma non vi siete accorti che erano semi.”

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